Mea culpa del Giappone, ma è la coalizione che arranca
Isis Dopo l'uccisione di Goto, la Giordania tenta di riaprire il dialogo con il califfato, senza rovinare i rapporti con l'alleato Usa. Ma dopo 9 mesi di avanzata islamista, le uniche vittorie sono state archiviate dai kurdi
Isis Dopo l'uccisione di Goto, la Giordania tenta di riaprire il dialogo con il califfato, senza rovinare i rapporti con l'alleato Usa. Ma dopo 9 mesi di avanzata islamista, le uniche vittorie sono state archiviate dai kurdi
Jihadi John torna a uccidere, affossando così le speranze giapponesi: Kenji Goto è stato giustiziato domenica. Una morte che fa fare a Tokyo un salto mai compiuto dal 1945: il premier Abe ha promesso un nuovo impegno sulla scena internazionale. In Giappone il dolore ha già fatto spazio alle critiche verso il ruolo passivo del governo, che ha affidato alla Giordania il compito di trattare con l’Isis.
Una mancanza a cui Abe vuole mettere una pezza: incrementare il ruolo militare del Giappone nel caso di attacchi contro paesi alleati, abbandonando almeno in parte il tradizionale «pro-pacifismo attivo» adottato da Tokyo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E mentre Abe fa mea culpa, la Giordania riapre il dialogo sospeso con lo Stato Islamico: ieri Amman ha reiterato l’intenzione di liberare la qaedista al-Rishawi in cambio del pilota al-Kasasbeh. «Siamo pronti a consegnare la prigioniera in cambio del ritorno del nostro figlio e eroe», ha detto il portavoce governativo al-Momani, aggiungendo di volere prove dall’Isis che il militare sia ancora in vita.
La richiesta era stata espressa a poche ore dal video dell’esecuzione di Goto dal ministro degli Esteri, Nasser Judeh («Ad oggi non abbiamo ancora le prove chieste»), che – dando voce a re Abdallah – ha aggiunto che la Giordania non ha mai pensato di abbandonare la coalizione anti-Isis, come richiesto da parti consistenti dell’opinione pubblica: di nuovo ieri un gruppo di giovani ha manifestato la rabbia per lo stallo nelle trattative e ricordato ai reali di non voler vestire i panni «dell’agnello sacrificale sull’altare Usa».
Amman sa che l’uscita dal fronte anti-terrore peserebbe sui rapporti con l’alleato americano, principale finanziatore in termini di aiuti militari. Ma a preoccupare è una possibile radicalizzazione dell’opinione pubblica, soprattutto nelle zone più periferiche e le città più povere, da cui molti giordani sono partiti per unirsi al califfato: «Se il pilota muore, la gente ne riterrà responsabile il governo. Lo Stato Islamico non farà che aumentare il consenso da parte di certi gruppi», prevede l’ex deputato Ali Dalaen. «Questa non è la nostra guerra – gli fa eco Hind al-Fayez, leader della potente tribù Bani Sakhr – Se l’Isis sacrificherà il nostro figlio, speriamo che il governo mostri saggezza e abbandoni subito l’idea di partecipare ad una campagna via terra».
A Washington la trattativa tra Giordania e Isis non piace, perché contraria al mantra Usa del «con i terroristi non si tratta». Ma il timore di un’instabilità interna preoccupa molto di più del rilascio di una prigioniera islamista. I dubbi della Casa Bianca tormentano il presidente, costretto ad annunciare domenica in un’intervista alla Nbc che lo Stato Islamico ha in mano un altro ostaggio statunitense: si tratta di una cooperante 26enne, rapita un anno e mezzo fa in Siria, su cui le autorità avevano taciuto per portare avanti le indagini. Ad agosto le milizie di al-Baghdadi chiesero a Washington un riscatto di 6,6 milioni di dollari.
A quasi 9 mesi dall’inizio dell’avanzata islamista, i successi della coalizione sono minimi: secondo i dati ufficiali i raid aerei hanno ucciso oltre 6mila miliziani, ma non hanno intaccato la capacità del califfato di attirarne altrettanti. Le statistiche dell’Onu parlano di mille miliziani in più ogni mese, arruolati tra le file dell’Isis, che sfrutta al meglio la politica degli ostaggi a fini propagandistici. Allo stesso tempo, come ammesso dal Pentagono, in Iraq la coalizione è riuscita a strappare al controllo dello Stato Islamico solo l’1% dei territori occupati.
L’Isis amplia il fronte di confronto ad altri paesi arabi, dall’Egitto all’Arabia Saudita, seppure in alcuni casi sia stato costretto ad arretrare. È successo a Kobane, dove la resistenza popolare ha spinto fuori gli islamisti, ha già liberato altri 13 villaggi intorno e ora punta alla ricostruzione. È successo a Kirkuk, dove peshmerga e esercito iracheno hanno respinto l’assalto dell’Isis. Ed è successo a Diyala, provincia irachena liberata dalle truppe di Baghdad, il cui governo continua a puntare sulla riconciliazione interna: ieri il premier al-Abadi ha promesso di perseguire i combattenti delle milizie sciite e i funzionari dell’esercito responsabili di uccisioni e rapimenti di civili, dopo le stragi in alcune comunità sunnite liberate a Diyala. Per questa ragione, ha aggiunto al-Abadi, entro sei mesi saranno formate unità della Guardia Nazionale, formate da milizie locali sia sunnite che sciite.
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