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Md: «Il processo è virtuale, per ora. La giustizia no»

Md: «Il processo è virtuale, per ora. La giustizia no»Tribunale di Torino – Ansa

Intervista Parla il pm Stefano Musolino, coordinatore del convegno online di Magistratura democratica

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 30 aprile 2020

La giustizia ai tempi del Coronavirus va avanti, la tecnologia sta aiutando a non fermare la macchina, ma i problemi non mancano. Stefano Musolino, pm a Reggio Calabria, è il coordinatore del convegno online che Magistratura democratica (Md) ha promosso per affrontare opportunità e rischi delle innovazioni. L’appuntamento per le toghe è oggi alle 16, ciascuno davanti al suo tablet.

Dottor Musolino, le chiedo senza giri di parole: nel ’processo da remoto’, quello via computer, le garanzie per gli imputati sono indebolite?

Sì, purtroppo. Le forme non sono neutrali, ma inverano le garanzie. La relazione fra i soggetti di un processo si sostanzia in un rapporto fisico: c’è un diritto dell’imputato a guardare il suo giudice, nell’aula di udienza, che nessuno può contestare.

La pensa così l’intera magistratura italiana?

Ci sono sensibilità diverse. Noi di Md temiamo che il paradigma tecnocratico possa essere percepito come la panacea di tutti i mali e imporsi oltre l’emergenza. Secondo noi è un pericolo, perché la tecnologia può aiutare, ma deve essere al servizio dei diritti e delle garanzie. L’innovazione tecnologica non è più reversibile, ma non può essere la tecnologia a dettare la linea: serve spirito critico, senza la pretesa, nemmeno da parte nostra, di avere la verità in tasca.

L’esperienza di questi giorni cosa sta mostrando?
Durante questa emergenza una compromissione minima dei diritti e delle garanzie è resa necessaria. Le faccio un esempio: chi è arrestato in flagranza di reato ha diritto a comparire davanti a un giudice entro 48 ore, ma ora è fisicamente impossibile. Quindi, entro 48 ore si fa l’udienza da remoto, e la giustizia può andare avanti, grazie alla collaborazione di tutti, polizia e avvocatura comprese. Passata questa fase, però, l’eccezione non deve diventare regola, perché la presenza fisica in aula è un elemento essenziale.

Diceva che con gli avvocati c’è stata collaborazione, non era scontato.
Sì, nella gestione dell’emergenza si sono firmati molti protocolli. Poi, anche legittimamente, l’avvocatura ha cominciato a temere che quello che è una regola eccezionale possa diventare strutturale. E di fronte a ciò alza le barricate.

Abbiamo visto i problemi, ma invece c’è qualche innovazione tecnologica che a suo giudizio dovrà rimanere anche nel futuro?
Il processo civile è già tutto in digitale, il processo penale è molto più indietro. Tutto quello che riguarda la dematerializzazione degli atti va bene, ma l’udienza da remoto è un’altra cosa, perché il rapporto fra gli attori del processo è più delicato. Ci sono certamente situazioni nelle quali si può fare tutto a distanza senza ledere i diritti di nessuno: una separazione consensuale, ad esempio, o la nomina di un perito. Il problema che noi vediamo nasce quando l’innovazione tecnologica diventa un espediente per ’liberare’ dagli ’intralci’ delle garanzie, come quelle del migrante nei procedimenti per l’asilo e quelle dell’imputato nel processo penale.

È l’efficientismo «modello Davigo»?
Diciamo che esiste un nesso profondo fra le posizioni che, da sempre, vedono diritti e garanzie degli imputati come un intralcio e il paradigma tecnocratico che si fa avanti adesso.

In questi giorni si discute molto anche di presunte scarcerazioni facili, soprattutto di boss mafiosi. Il Dap è nell’occhio del ciclone, la nomina del nuovo vicecapo Roberto Tartaglia, ex pm antimafia a Palermo, ha tutta l’aria di un commissariamento…

Io lavoro nella direzione distrettuale antimafia da nove anni, e posso dirle che la capacità dello Stato di fronteggiare il fenomeno mafioso dipende dalla capacità dello Stato di far rispettare le regole, anche quando tali regole determinano la scarcerazione di persone che hanno condanne per mafia. Bisogna fare attenzione a logiche semplificatorie che individuano un ultraottantenne malato come un nemico la cui morte in carcere risolverebbe i problemi. Così facendo si trasformano le persone in simboli: non solo è profondamente anticostituzionale, ma non serve. La supremazia dello Stato nei territori in cui essa è contesa della criminalità organizzata si afferma proprio attraverso il rispetto dei diritti di tutti.

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