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McQueen, il corpo estremo

McQueen, il corpo estremoChiwetel Ejiofor in 12 anni schiavo di Steve McQueen

Oscar Steve McQueen in «12 anni schiavo», vincitore nella categoria miglior film, racconta un'epopea fisica, la stessa di «Hunger». La carnalità è l’agone politico per eccellenza dove si inscena il potere di vita e di morte

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 marzo 2014

Se l’Academy ha bocciato un film come quello di Scorsese perché troppo radicale, gli stessi membri della giuria devono aver avuto uno sguardo strabico e allucinato quando hanno deciso di consegnare una delle statuette più importanti a 12 anni schiavo di Steve McQueen. Perché l’ultima opera del regista inglese non è solo un affresco tradizionale sul razzismo né esclusivamente una testimonianza sulle condizioni dei neri d’America nell’Ottocento.

Forse l’Oscar a McQueen è stato dettato da un certo perbenismo e un atteggiamento in odore di buonismo, «polically correct», sfoggiato nell’affrontare un tabù endemico. Eppure, c’è qualcosa che va oltre, sfuggito probabilmente ai giurati stessi. 12 anni schiavo parla di una fisicità ai limiti, di un corpo (più corpi) estremo, di un accanimento sulla pelle che si appiccica addosso allo spettatore, come quelle riprese che indugiano su ferite e sangue, piaghe liturgiche. Parla del divorzio dalla propria identità quando si è imprigionati in una uniforme, qui un abito incolore, grezzo, spersonalizzante, resi così carne da macello. Mostra una schiavitù sadica che, agìta sul fisico, ingabbia la mente. È il medesimo meccanismo che si è registrato nei campi di concentramento, negli istituti securitari, nei ghetti. L’epopea raccontata è, in fondo, la stessa di Hunger (il film sull’attivista Bobby Sands): il controllo del corpo è l’agone politico per eccellenza dove si inscena il potere di vita e di morte. E la fisicità indicibile vince.

Fra i lavori più emozionanti del McQueen artista troviamo Carib’s Leap e Western Deep, presentati entrambi a Documenta Kassel, nel 2002. Nel primo, lo sguardo vola sulla splendida baia di Grenada, ripresa dall’alba al tramonto. Sembra una cartolina turistica, un panorama da cliché fino a quando non si contrappone il filmato che ricorda il suicidio di massa dei caraibici; nel 1651 preferirono gettarsi giù dal dirupo alto 40 metri (quello del titolo) piuttosto che arrendersi ai francesi conquistatori. Quell’atto disperato e eroico, unica forma di resistenza possibile, viene riproposto mostrando corpi di diverse età che cadono su un fondo luminoso, insieme a immagini della vita sull’isola e dei suoi abitanti. L’altro film è un super8 e prende il nome dalla miniera d’oro più profonda del mondo, a Johannesburg. Nel buio, colpito da luci intermittenti e da suoni violenti, lo spettatore viene immerso nelle viscere della terra e condivide la fatica dei minatori. Se ne sta chiuso claustrofobicamente tra di loro, assistendo impotente a quel disumano teatro di esistenza. Una corporalità insostenibile.

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