Solo una certa dose di distacco dagli accidenti del mondo poteva assicurare a Ian McEwan le condizioni per concedersi quella ironia che connota la sua seconda stagione narrativa, al tempo stesso più sensibile alle contingenze e più beffarda di fronte agli imperativi del realismo. Sebbene lo scrittore inglese avesse già attinto a questioni di attualità – Solar, per esempio, affronta con spudorata ironia i problemi relativi al cambiamento climatico – una sorta di svolta nell’impronta del suo contatto con la realtà ha coinciso, nel 2017 con il romanzo Nel guscio, dove la voce narrante è affidata a un feto, che prima ancora di approdare alla vita riflette sulla sua mancanza di senso; passato poi al fronte della rivoluzione tecnologica in Macchine come me, McEwan aveva immaginato un androide che venendo meno alla logica degli algoritmi si innamora della fidanzata del protagonista; finché finalmente lo scrittore inglese era approdato al suo intreccio più politico, Lo scarafaggio, ribaltando la metamorfosi kafkiana e facendo svegliare una blatta nelle vesti di un riconoscibilissimo primo ministro inglese, le cui strategie governative rivelano a ogni passo la sua vera natura.

Si sarebbe tentati perciò di ricondurre il breve testo di occasione che Einaudi traduce ora con il titolo Lo spazio dell’immaginazione (a cura di Susanna Basso, pp. 56, euro 12,00) alla difesa del diritto di uno scrittore di limitare il proprio impegno nei confini dell’attrito tra fantasia e scrittura, lasciandosi alle spalle la dura realtà di guerre, cambiamenti climatici, repressioni politiche, e altre calamità; ma è una interpretazione che non coglie davvero l’esigenza di McEwan, che è piuttosto quella di abitare una terra di mezzo, dove la consapevolezza dei pericoli circostanti arrivi a farsi sentire senza tuttavia dettargli l’agenda della scrittura.

Esempi prediletti
Estraneo a entrambi i poli, dell’indifferenza e dell’impegno militante, McEwan trova una incarnazione di questi estremi in Henry Miller e in George Orwell, caratteri effettivamente diversissimi che si incontrarono una sola volta: lo scrittore americano, più vecchio di dodici anni, cinico e autoreferenziale, era stato reso indulgente da una recensione positiva al suo Tropico del cancro che il giovane inglese aveva scritto per lui: gli portò dunque una giacca con la quale affrontare l’inverno del ‘36 in Spagna, non prima di avere cercato di dissuaderlo dall’avventura, e di avergli ricordato come avesse già sufficientemente compensato le sue ansie di riscatto per gli anni spesi con la British Imperial Police in Birmania. Del resto, una sorta di attitudine al coinvolgimento portava Orwell a distribuire le proprie cure tanto sul fronte di guerra che nei pacifici confini del suo orto, dei cui progressi prendeva nota nei diari dalla fattoria di Wallington, dove la ruvidezza dei lavori di campagna lasciava spazio alla costruzione immaginaria di quella Fattoria degli animali che lo avrebbe reso celebre.

Altri due scrittori attraggono McEwan per la loro collocazione nella sinistra eterodossa: Albert Camus, che al tempo stesso rivendica la partecipazione alle urgenze dei suoi tempi e avverte tutte le insidie che gli ideali possono portare alla costruzione di un’opera d’arte; e il Calvino di La giornata d’uno scrutatore, dalla lettura del quale McEwan uscì convinto del fatto che «un romanzo politico non può funzionare senza il legame con una storia personale intensa e convincente». Ma la condizione ideale per uno scrittore si trova, secondo McEwan, sintetizzata in un ossimoro coniato dal critico V. S. Pritchett per indicare ciò che Ford Madox Ford non era in grado di provare: uno «stupore deliberato».
Ammesso che effettivamente Ford non lo avesse mai sperimentato, anche McEwan confessa di avere goduto solo per brevi periodi della capacità di sostare in quello stato di sospensione fiduciosa che prelude all’arrivo di una qualche buona idea.

Momenti fortunati
È uno stato che si avvantaggia della solitudine, bene abbondante quando cinquant’anni fa McEwan cominciò a scrivere e oggi perduto nelle derive mediatiche cui pochi scrittori sanno resistere. Non resta quindi che rivendicare «un posto nel quale l’immaginazione possa rifugiarsi per dettare le proprie condizioni», con la benedizione – McEwan ne è certo – di un campione dell’impegno come Orwell, che pur non facendo parte dei rifugiati nel ventre della balena avrebbe difeso la libertà di ritagliare al proprio lavoro una qualche forma di isolamento.