Visioni

Mazen Kerbaj: «Dentro le mie note il dramma della guerra»

Mazen Kerbaj: «Dentro le mie note il dramma della guerra»Mazen Kerbaj – foto di Marcello Lorrai

Incontri Parla il disegnatore e trombettista libanese, durante la crisi con Israele del 2006 tenne un blog-diario

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 15 dicembre 2023

«Ho fermato tutto, faccio solo i concerti che avevo in programma e che sono tenuto a fare: la mattina mi sveglio e penso a quello che succede a Gaza e continuo a pensarci fino a quando vado a dormire: ma ho la fortuna di essere un artista, e allora disegno, e mi aiuta a rimanere sano di mente di fronte a questa follia». Nato a Beirut nel 1975, disegnatore da quando aveva quattordici anni, durante la guerra del 2006 di Israele contro il Libano Mazen Kerbaj tenne un magnifico blog-diario, poi raccolto in volume. Ma Kerbaj è anche trombettista, e dalla fine dei novanta è stato uno dei pionieri dell’improvvisazione radicale in Libano. Quando nelle notti dell’estate 2006 cominciarono i bombardamenti su Beirut, Kerbaj ebbe l’idea di registrarsi alla tromba sul balcone di casa accompagnandosi coi boati delle esplosioni; poi mise in rete un estratto di queste registrazioni con il titolo Starry Night, indicando ironicamente come crediti: Mazen Kerbaj, tromba; aviazione militare israeliana, bombe. «Non era una cosa eroica», ci aveva raccontato Kerbaj a Beirut poco dopo la fine della guerra del 2006, «stando in un quartiere cristiano non era probabile che le bombe israeliane piovessero addosso a noi. Credo che il fatto di sapere che mentre le bombe cadevano c’era qualcuno che stava suonando ha dato attraverso internet un’altra idea della realtà di quelle bombe, rispetto a quello che si vedeva in televisione». Affermato come improvvisatore a livello internazionale, specialista di modalità non ortodosse nell’uso della tromba, Kerbaj vive da otto anni con la famiglia a Berlino, dove dopo un anno e mezzo di residenza artistica ha deciso di restare, innanzitutto per dare ai suoi figli un orizzonte meno incerto di quello libanese (sulla sua attività si veda il sito mazenkerbaj.com).
Abbiamo incontrato Kerbaj ad Area Sismica di Forlì, dove il 3 dicembre si è esibito – in un set davvero radicale e di rimarchevole intensità – con un sestetto creato per l’occasione, fondendo A Trio (Kerbaj e altri due pionieri dell’improvvisazione radicale libanese, Sharif Sehnaoui, chitarra acustica, e Raed Yassin, contrabbasso), e gli italiani Ossatura (Elio Martusciello, elettronica, Luca Venitucci, fisarmonica, Fabrizio Spera, batteria).

Lei è nato pochi mesi dopo lo scoppio della guerra civile libanese…

Nel 2006, così come molta gente della mia generazione, mi detestavo perché sentivo quasi un certo piacere, ad avere paura delle bombe: era come se avessi ritrovato una paura di bambino, ma ormai ero grande, avevo un bambino anch’io. Una specie di piacere nascosto, un po’ come una madeleine di Proust. Era spaventosa questa nostalgia della guerra: il 2006 aveva risvegliato la mia infanzia… Ma sono passati degli anni, e con un po’ di autoanalisi mi accorgo che certi miei comportamenti dipendono dal fatto che sono stato bambino e poi ragazzino con la guerra civile.

Nel nostro precedente incontro mi aveva raccontato della sua non casuale fascinazione per certe cose musicali, come Machine Gun di Brotzmann, una pietra miliare dell’improvvisazione radicale…

Assolutamente, ero attirato già dal titolo e dalla copertina, con la mitragliatrice, e la violenza di certo free jazz mi attirava molto, proprio per questo motivo… Ma adesso comincio a guardare all’epoca della guerra con lucidità piuttosto che con una qualche nostalgia verso quella che in definitiva è stata la mia infanzia. Però proprio il fatto di essere cresciuto con la guerra mi fa pensare che immaginare quello che succede a Gaza per me sia molto diverso che per un italiano o un tedesco.

Alcune delle vignette – ma questo termine italiano stona con la tragicità della cosa – che ha disegnato sono fortissime, tolgono il fiato…

Nel 2006 ci indignava il numero di morti in Libano, ma quella di Gaza è una macelleria che il cervello non riesce ad assumere. Mi sono reso conto che disegno in primo luogo per me, per tenere la testa a posto, e per testimoniare della follia, ma per i commenti che ricevo sui social so che quello che faccio aiuta molta gente. Vedere quello che succede espresso in maniera diversa dalle foto o dai filmati, in qualche modo – lo so dalla mia esperienza del 2006 – resta inciso in maniera più profonda. Penso che sia la forza del disegno, nel modo che ho di intenderlo. L’immagine di un bambino morto ci sciocca e ci fa allontanare lo sguardo, nel disegno invece c’è una distanza con l’orrore che invita ad uno sguardo più attento, a vedere la realtà della cosa: più che l’immagine è l’idea a fissarsi nella tua testa. Ci sono dei giorni in cui non ne posso più e mi dico che devo staccare: ma poi penso a chi è lì, che raccoglie i morti e cerca di proteggere i suoi bambini e vado avanti: in una maniera o nell’altra mi sento parte della resistenza alla follia, lo faccio per me e per molte persone che sento vicine.

In uno dei suoi disegni ha fatto riferimento al disagio che per la prima volta ha provato a Berlino…

Quando vado in metropolitana e parlo con mia moglie e i miei figli, faccio per la prima volta caso al fatto che sto parlando arabo, e che quindi posso essere identificato come arabo. Un amico tedesco mi ha detto: ma non sarai un po’ paranoico? Se sono paranoico è che sono stato portato ad esserlo: ho vissuto otto anni a Berlino senza essermi posto il problema. È l’effetto del fatto di aver visto criminalizzare la bandiera palestinese e la kefiah. Dici che vuoi il cessate il fuoco e ti accusano di terrorismo. E devi giustificarti anche con i tuoi amici, assicurare che condanni le violenze di Hamas contro i civili: come se i tuoi amici potessero avere dei dubbi su questo. E devi cercare di spiegare che non è cominciato tutto il 7 ottobre. È vero che c’è una crescita dell’antisemitismo, ma si vuole combattere l’antisemitismo con l’islamofobia. In compenso mi consola che dappertutto la questione palestinese sia tornata ad essere la bussola morale del nostro mondo, che la lotta dei palestinesi venga riconosciuta da tanti altri oppressi, dai nativi agli afroamericani alle femministe ai gay, e che tanti ne abbiano abbastanza di questa egemonia bianca, colonialista, capitalista.

Quale è la situazione della scena improvvisativa e sperimentale nella catastrofe del Libano degli ultimi anni?

Come al solito Beirut è sorprendente. Le catastrofi hanno colpito pesantemente questa scena, molti se ne sono andati, ma è stata anche una sferzata per quelli che sono rimasti. Ho fatto parte della generazione del dopo-guerra civile: adesso ce n’è un’altra, molto attiva, molto dinamica, che si organizza all’insegna del do it yourself, che improvvisa delle situazioni. Come sempre le crisi portano con sé dei movimenti culturali molto forti.

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