Cultura

Maylis de Kerangal, il viaggio oltre i confini di sé

Maylis de Kerangal, il viaggio oltre i confini di séMaylis de Kerangal foto ©Basso Cannarsa

TEMI PRESENTI Parla la scrittrice francese sul suo «Fuga a Est» (Feltrinelli). Da domani ospite nell’ambito del Festival Dedica. «Hélène e Alëša sono divisi da una storia molto diversa: la Guerra Fredda, la Cortina di ferro. Il mio romanzo tratta di una fenomenologia e della materialità fisica degli esseri viventi. Mi interessa narrare il mondo dell’esperienza»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 17 marzo 2023

Alëša ed Hélène si trovano su uno stesso treno, ma sono lontani come l’Oriente e l’Occidente. Nello splendente romanzo di Maylis de Kerangal Fuga a Est (pp. 96, euro 12) – edito da Feltrinelli nella bella traduzione di Maria Baiocchi – Alëša è un giovane russo chiamato all’obbligo del servizio militare ed Hélène una donna francese in viaggio e lontana da Parigi. Entrambi sono in movimento, viaggiano verso l’Est. I giovani soldati di leva di cui fa parte anche Alëša vengono da Mosca, sono numerosi e sono partiti già da molte ore lungo quel tragitto interminabile che è la ferrovia transiberiana. Hélène invece sale alla stazione di Krasnoïarsk direzione Vladivostok. Lei fugge da un amante, lui sulle prime non fugge da nulla. Quel treno che per lei rappresenta un mezzo per transitare da libertà diverse, per lui è come una prigione in movimento, che lo transita da un obbligo all’altro.
La scrittura folgorante di Maylis de Kerangal riesce, nello spazio di qualche decina di pagine, a costruire l’incontro di due vite lontane, apparecchiando il momento in cui questi destini apparentemente agli opposti troveranno il modo di legarsi. «Alëša la osserva – le cartilagini trasparenti del naso, il profilo flessibile – allunga una mano e le batte sulla spalla – lei sussulta, si gira verso di lui che si punta l’indice sul torace e sillaba Alëša e la donna, guardandolo negli occhi per la prima volta, stupita dal modo brusco del ragazzo, si mette a sua volta una mano sul petto e sillaba: Hélène».

Tutto avverrà lungo le traiettorie della foresta boreale ma anche di quel deserto abbagliante che è la steppa siberiana, con l’accompagnamento di paesaggi sterminati, a perdita d’occhio, sempre uguali eppure diversi – come lo sono le sfumature della neve per coloro che hanno l’abitudine di osservarla.
L’autrice, protagonista della XXIXa edizione di Dedica Festival a Pordenone ci parla del suo romanzo, appena edito in Italia.

Il suo libro racconta la storia di un viaggio che si configura come l’espediente per un incontro ma anche per una fuga. Alëša ed Hélène si incontrano in quanto individui, tuttavia il loro è anche un incontro di culture, di aspettative e di desideri diversi. In che modo secondo lei i suoi due personaggi, pur nell’incontrarsi, incarnano la diversità?
I due protagonisti del mio romanzo incarnano una forma ancora più forte di diversità, che è l’alterità. Sono la rappresentazione di cosa è l’alterità: Hélène è una donna occidentale, con tutta la sua dose di libertà – quella materiale legata innanzitutto alla possibilità di spostarsi – mentre Alëša è un ragazzo dell’est, russo. Li divide un passato, una storia molto diversa; la Guerra Fredda, la Cortina di ferro. E poi ci sono le diversità legate all’età, all’estrazione sociale, alle condizioni economiche, al genere, alla lingua.
Lei può permettersi di viaggiare in prima classe, lui è obbligato alla leva perché non può permettersi di corrompere il sistema. Anche la lingua li divide e non c’è neppure l’inglese a giocare il ruolo di lingua franca. La loro alterità, radicale, si arresta al loro essere entrambi parte della specie umana, soggetti umani. E dall’essere entrambi in fuga da qualcosa che anche in questo caso però ha origini molto diverse.

Le pagine del suo libro non si abbandonano mai a quello che definiremmo un scavo psicologico e analitico dei personaggi. Sembrano essere invece i gesti compiuti dai due protagonisti, le porosità, gli sfioramenti e quel coabitare nello stesso compartimento a rivelare la loro psicologia. Come le è riuscito di condurre l’introspezione tramite la sola narrazione?
Ha perfettamente ragione. Ho appena detto che non c’è una lingua comune e quindi non è il dialogo verbale la piattaforma di scambio tra i due personaggi del mio romanzo. La percezione di quello che sono Hélène ed Alëša non si attua tramite lo scambio dialogico, ma attraverso una narrazione che è puntellata di descrizioni dettagliatissime sulla gestualità e il rapporto tra i corpi. L’introspezione è agita dai movimenti tra i corpi, dai sensi che li abitano. Io sono convinta che le emozioni che ci attraversano si manifestano nella nostra mobilità. Si tratta di una fenomenologia. Della materialità fisica degli esseri viventi. Si tratta di attendere che l’interiorità passi e si manifesti nell’esteriorità dei corpi.
È il mondo dell’esperienza che mi interessa narrare, il «primo mondo», quello dei sensi, quello dove si percepisce ad esempio che una superficie è fredda, rugosa e colorata. Ci si può incontrare nell’intervallo tra le frasi, negli spazi tra quello che è il linguaggio in sé. Tramite la mia scrittura vorrei captare le vibrazioni, tutto quel tanto che è tra le frasi, che è interlinguistico: cioè quella verità forte, pregnante, stupefacente che in questa coppia uomo-donna va oltre la comunicazione linguistica. Credo che sia vero quanto scrive il filosofo Jean-Luc Chrétien a proposito del corpo «portaparola della psiche». Un gesto d’amore si può operare anche senza il linguaggio verbale.

Il racconto dei fatti si alterna tra un dentro vissuto e un fuori osservato: l’interno del treno – esiguo, «compartimentato» e denso di esseri umani vocianti; e l’esterno di una Siberia che appare come sconfinata e quasi totalmente deserta. Secondo quali espedienti la fuga dei due protagonisti è agita secondo questa alternanza. Cosa stanno a rappresentare l’Est e l’Oceano Pacifico?
Il Pacifico è la pace. Nell’ultima parte del romanzo, quando i due protagonisti arrivano finalmente sul Pacifico, è la dolcezza a predominare. Hélène ed Alëša sono diventati come fratelli, fratelli nella fuga e nelle avversità che sono riusciti a superare proprio perché insieme. Sì, il treno è un interno che però non significa protezione: al contrario è figura della violenza. Ci sono i militari. Ma anche l’esterno, pur grande, anzi di un’immensità vertiginosa, è immagine della violenza. Questo perché si tratta di un esterno in cui l’ambiente naturale è carico di storia e di violenza politica.
La Siberia come terra dei Gulag, terra vasta in cui non era neppure necessario alzare i muri delle prigioni perché la fuga significava ritrovarsi nel mezzo del niente, di steppe deserte e interminabili. Come il treno, anche l’esterno è una prigione ma a cielo aperto e questo perché il punto di vista di Hélène che lo osserva è quello di una giovane occidentale per cui la Siberia incarna il cliché della Russia stalinista. Non c’è spazio per l’ascolto del canto del paesaggio. I due spazi, l’interno e l’esterno, si tessono in una trama di violenza e costrizione. C’è una fuga possibile? La fuga è l’Est, è l’incontro umano tra i due, è l’empatia, la solidarietà, il desiderio, l’amore.

Lei riesce ad articolare la narrazione in uno spazio conciso in termini di numero di pagine, che dà luogo a un testo che si legge tutto d’un fiato. Il suo è un esercizio di densità. In che modo è riuscita a circoscrivere lo spazio della scrittura?
Per spiegarmi è necessario specificare che Fuga a Est è la ripresa infedele di un radiodramma intitolato «Linee di fuga» della durata di due ore e trenta, scritto per France Culture e andato in onda nell’agosto del 2010. È nato da un viaggio reale in Transiberiana tra Novosibirsk e Vladivostok. Diciamo che questa è la base di partenza. In qualche modo il formato mi era stato imposto; solo poi ci ho costruito un romanzo. All’origine il testo è stato pensato per una lettura ad alta voce, poi ho dovuto pensare alla pubblicazione scritta, a riconfigurare il testo – che ho ampliato.
È interessante capire come trovare la libertà autoriale in uno spazio imposto. Io ho pensato di farlo con il romanzo, la narrativa, la finzione. Per me la scrittura romanzesca è cercare di concentrare e allo stesso di condividere, ma è sempre un esercizio di densità.

Crede che «Fuga a Est» rientri in quella che è definita la narrativa di viaggio? Se sì, quali autrici e autori l’hanno ispirata?
Non credo che il mio testo possa rientrare a pieno titolo in quella che è definita la letteratura di viaggio. Insomma non un Nicolas Bouvier, Kapuscinski o Bruce Chatwin. Non si ritrovano delle istanze diaristiche, nonostante il testo prenda origine da un mio viaggio avvenuto nel 2010. Si tratta di una vera e propria finzione. Io ho voluto riconfigurare la mia esperienza tramite l’invenzione e la libertà che la forma del romanzo mi ha lasciato e continua a lasciarmi.

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SCHEDA. Gli incontri di Pordenone fino al 25

La XXIX edizione di Dedica Festival (18-25 marzo) avrà per protagonista la scrittrice Maylis de Kerangal che domani riceverà il sigillo della città e il cui dialogo sarà condotto da Federica Manzon. Nei giorni a seguire, De Kerangal sarà impegnata in incontri ad ampio raggio, dalle mostre al teatro (sempre in riferimento ai suoi romanzi), quindi sarà con Mara Fella, Angelo Bertani, Lucilla Giagnoni, Paolo Pizzimenti, Alessandra Ferraro, Paolo Di Paolo, Marie-Christine Jamet, Martina Meidl e Virginie Leclerc, Simonetta Solder, Lorenzo Danesin, Riccardo Costantini. Info sul sito http://dedicafestival.it

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