Mauro Pagani, il trickster della musica italiana alle prese con la sua ombra fuggiasca
Biografie italiane «Nove vite e dieci blues», da Bompiani, l’autobiografia di Mauro Pagan
Biografie italiane «Nove vite e dieci blues», da Bompiani, l’autobiografia di Mauro Pagan
«Un uomo senza Ombra è un po’ come una carta velina: è l’Ombra che ci dà spessore»: lo affermava il grande psicoanalista junghiano Mario Trevi nel libro-conversazione scritto con il figlio Emanuele (Invasioni controllate, Castelvecchi 2007). Dimensione che comprende ciò che si tende a rifiutare della propria struttura personale, o che discorda con il ruolo che ognuno riveste nella vita sociale, il concetto di Ombra è centrale nella psicologia analitica, e il processo di individuazione è anche la ricerca del punto di equilibrio «mobile» in cui non si affonda nell’Ombra, ma neanche ce ne si allontana troppo.
A questo tipo di tensione viene da pensare leggendo Nove vite e dieci blues (Bompiani «Overlook», pp. 216, € 17,00), la recente autobiografia di Mauro Pagani, luminoso trickster (per proseguire con un’altra figura cara a Jung) della musica italiana, capace di attraversare sessant’anni di rock, canzone d’autore, musica popolare, cinema e teatro. Le «nove vite» del titolo rimandano già di per sé a una pluralità di esperienze difficile da contenere in un intero disciplinato, ma tutto l’asse del racconto è allacciato alla dialettica interiore che Pagani intrattiene con il «fuggiasco», suo altro da sé che ha la prerogativa di scardinare le certezze, di far saltare il banco. Un sabotatore che esige obbedienza, sotterraneo e a volte minaccioso, ma alla fine capace di donare e aprire orizzonti.
È una metafora potente, quella messa in campo da Pagani, che segna il ritmo di un’avventura alimentata dalla perenne curiosità, dalla sana insoddisfazione di cui ogni artista autentico deve vibrare. Dalla provincia bresciana del Dopoguerra, con l’approccio quasi casuale al violino come antidoto contro la solitudine, fino ai primi ingaggi con gruppi di cover rock e blues, e alle estenuanti tournée oltreoceano con la Premiata Forneria Marconi nella piena sbornia del progressive; quindi la conversione alla «musica del mondo», i dischi solisti e l’amicizia e collaborazione fondamentale con Fabrizio De André; e ancora la fondazione delle Officine Meccaniche, sala d’incisione di riferimento mondiale intitolata come l’antica impresa di famiglia, un’altra avventura solitaria a New York da violinista insofferente ai generi canonici, poi la direzione di festival (Estate fiorentina, Città aromatica di Siena, Sanremo), l’attività di produttore con Ornella Vanoni, Roberto Vecchioni, Massimo Ranieri e tanti altri: a tutte queste tappe è sempre sottesa l’opera di tessitura e scomposizione di un io «accomodante, mediatore, capace di trovare un accordo o una soluzione» e di un doppio che è «soldato senza patria e senza bandiera, l’anarchico battagliero che faticava ad ascoltare, a comporre, a perdonare».
Nata dall’esigenza di ripercorrere le tappe di una vita e di una carriera dopo lo sfregio alla memoria provocato da un disturbo neurologico, l’autobiografia di Pagani si nutre di un altro tema sotterraneo: la ricerca di una lingua, di un codice espressivo capace di comprendere le differenze e superarle senza cancellarle. È, in fondo, lo stesso problema che Pagani e De André si posero preparando il loro primo capolavoro, l’album Creuza de mä (1984): l’idea iniziale, la creazione di un «grammelot da uomini di mare», un linguaggio inventato di marinai di ogni razza e provenienza, fu sostituita dalla decisione di utilizzare il genovese, lingua viva ben nota al cantautore. Ma già di per sé un grammelot, con De André che si entusiasmava per le più di mille parole di uso corrente con etimo arabo. È in episodi come questi, forse, che è racchiusa la lezione fondamentale della parabola umana e artistica di Pagani: far fiorire l’estraneo nell’identico, l’eccezione nella tradizione. Far salpare sulla stessa nave il fuggiasco e il cartografo.
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