Visioni

Maurizio Rosenzweig, è questione di fumetti con la schiena dritta

Maurizio Rosenzweig,  è questione di fumetti con la schiena drittaUna tavola da «La Sindrome di Leonardo»

Incontri Lo sceneggiatore e disegnatore milanese torna come autore unico con «La Sindrome di Leonardo». Il protagonista è un vero e proprio alter ego dell’autore ma nella storia si parla anche di depressione

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 aprile 2023

Per far fumetti ci vogliono i muscoli. Di suo, Maurizio Rosenzweig ci aggiunge tecnica e disciplina affinate in 30 anni di narrativa disegnata in salsa «pop». 13 anni e centinaia di tavole dopo l’irripetibile Zigo Stella edito da BD, ora lo sceneggiatore e disegnatore milanese torna come autore unico con La Sindrome di Leonardo (Feltrinelli Comics). «Non è stato un digiuno, ma un periodo di metamorfosi psicologica che ha richiesto tempo e crampi al cervello, per inedia di coraggio», spiega Rosenzweig. «Ho lavorato per editori mainstream e non trovavo spazio mentale per altro. Credo di avere iniziato sette, otto libri che non ho mai finito perché sottomesso a rassicuranti parametri standard che non richiedevano la fantasia e l’energia creativa che un libro più personale esige, come il vampiro esige il sangue». Non storie, ma inizi di storie, mai pronti a spiccare il volo. A un certo punto, però, la voglia di rompere gli schemi torna a farsi sentire: «Io sono un disegnatore emotivo. E controllare la mia emotività in favore della coerenza è come anestetizzarmi. Come autore indipendente, poi, non ho ancora ricevuto proposte da altri scrittori che mi sembravano adatte a me, alla mia idea di racconto. Allora, ci metto la mia schiena e vada come vada. Almeno, se un libro viene male, posso dare la colpa solo a me stesso».

TRA IPOTALAMO, milza e coratella si fa strada l’odissea semiautobiografica dell’autore di fumetti Leonardo Levitsch, vero e proprio alter ego dell’autore classe 1970, ma fisicamente un po’ Depardieu giovane: «Non ho idea di come mai abbia disegnato Leonardo in quel modo, a parte il fatto di averlo voluto muscoloso: desideravo dare l’idea che per fare i fumetti ci volessero schiena forte e autodisciplina… a parte questo, ho sempre amato la fisicità di Depardieu, la sua forza dolce, l’intelligenza del suo sguardo e il naso da pugile. Forse, lasciare a lui il mantello dell’immedesimazione mi ha anche aiutato a collocarmi ai margini di un discorso che volevo onesto e non preoccupato di lasciarmi fragile o scoperto davanti ai lettori. Una maschera per essere me stesso. Una bugia per dire la verità». Ma al centro della storia c’è anche il mostro più spaventoso per ogni storyteller, la paralisi creativa. Che nel caso de La sindrome di Leonardo sfocia nella depressione. «È una malattia mortale che mi ha tenuto sgradevole compagnia per sei anni. E che, se non la curi, si porta via tutto: amore, amicizia, vita. Non se ne esce da soli. Bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto». Leonardo la vive e alla fine ne esce. «Volevo raccontare la depressione in modo serio, ma senza alcuna presunzione o saccenteria, solo come superstite a uno dei periodi più difficili ma anche catartici di tutta la mia vita», continua Rosenzweig. «Allo stesso tempo, stavo facendo un libro a fumetti e volevo che la gente lo vivesse come io vivo i fumetti; un posto magico dove si può stare bene e dimenticare per un po’ la realtà».

Maurizio Rosenzweig

DI QUI, LE CITAZIONI che impreziosiscono la trama attingendo da un pantheon autoriale ricchissimo. «Jack Kirby, Buzzati, Philip Roth, Eisner, Shelley, Superman, ma anche amici che per me e questo lavoro sono stati importanti e che lo sono anche adesso. Ho perso un po’ il conto di tutti i riferimenti. Il criterio era quello di dire “chi ha detto questa cosa meglio di come potrei mai dirla io?”. E allora, per dirla, uso lui». Il libro nasce di notte, nelle pause tra una tavola Bonelli e/o Dark Horse Comics e un sudato scampolo di vita familiare con la scrittrice Daniela Farnese e il figlioletto Alessandro, «il fumetto più bello che ho fatto». Rispetto ai lavori precedenti, la narrazione procede più lineare e compatta. Una scelta che però somiglia molto a una coincidenza: «Sono quasi certo di non aver avuto nessun controllo sullo sviluppo di questo libro, nonostante i tanti discorsi sulla possibilità di provare a fare libri più “dritti” fatti con la mia compagna, e con amorevoli ex editori. Ma Leonardo ha fatto quello che voleva. Io mi sono fatto trovare al tavolo con la carta pronta. La lucidità che ci hai trovato non viene da me, ma dalle persone che mi hanno aiutato a nutrirlo».

È una malattia mortale che mi ha tenuto sgradevole compagnia per sei anni. Se non la curi, si porta via tutto: amore, amicizia, vita. Ma non se ne esce mai da soli.

DATO che Rosenzweig è Rosenzweig, anche in La sindrome di Leonardo torna in scena il ricco bestiario di creature fantastiche fissate su carta dall’autore negli anni. Orsi, ninfe, kaiju… senza dimenticare Frank, «attore di fumetti». «Disegnarli mi fa vivere su un pianeta dove mi sembra di avere una cosa che nella vita reale non esiste: controllo, inteso come limite del Dolore. So che lì le cose tragiche non succederanno mai. Le persone parlano, si ascoltano. Si aiutano. Risorgono. L’orso è uno dei miei animali preferiti fin da piccolo. Anna rappresenta l’amore in tutte le sue declinazioni. Frank lo disegno quando posso, anche di passaggio o sullo sfondo. Dei miei alter ego è quello a cui adesso mi sento più affine fisicamente: appesantito, ma con le braccia forti e un diretto destro secco. Avrei una storia o una spiegazione per ognuno di questi personaggi, ma per raccontarla qui non c’è spazio sufficiente». Resta però quello per parlare del prossimo fumetto, una ‘love story’. «Parlerà dell’amore come costruzione egoista e paranoica del rapporto. Della possessività che diventa negazione della verità su chi ami e sulla sua stessa vita. Vorrei che anche questo nuovo venisse dritto e lineare. Sto già studiando un volto che esca dalla mia cosmogonia e che sia adatto al racconto. Naturalmente ci sarà Frank, da qualche parte. E forse Leonardo in un paio di scene, a palesare l’esistenza di un mondo condiviso che abita quel pianeta rassicurante di cui parlavo prima, dove il mio politeismo è empatico e mai tragico». ‘Per aspera ad astra’, insomma, che per far fumetti ci vogliono i muscoli.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento