«Io è un altro» scriveva Rimbaud, in una lettera decisiva per la poesia moderna. Si può pensare anche a questo leggendo i primi versi di Maurizio Marotta raccolti in Ombra da viaggio Poesie (1983-2017), Giometti & Antonello (pp. 205, € 26,00): «Mi porto dentro un viaggiatore oscuro / partito nella lucida tempesta. Una staffetta / andata obliqua in centro strade…». Quale alterità si porta «dentro», questo poeta cilentino scomparso presto, nemmeno sessantenne, nel 2020, il cui «cuore ha sempre un verso / come il grano che ricresce»? Anzitutto, Marotta è un poeta che sembra diviso, spartito fra due inclinazioni fondamentali, «tra un colpo di partenza / e ciò che resta fermo in lontananza»: la necessità dello spostamento, dell’andare, del viaggio appunto (che è anche una dimensione quotidiana e magari talora un po’ sofferta); e, dall’altra parte, quella dell’osservazione statica, implicita per esempio in un titolo come Il cielo osservato dai balconi, che è forse il punto in cui Marotta trova una voce più riconoscibile.

Una voce che ora è possibile riascoltare dall’inizio alla fine della sua parabola, custodita per intero da questo volume amorosamente allestito e introdotto da Roberto Deidier, che mette a disposizione un cospicuo numero di testi inediti e dispersi, oltre a un drappello di traduzioni.

Che sia fermo o in moto, l’io lirico si avverte in ogni caso in difetto, se è vero che «la sostanza della vita» rimane in un altrove inattingibile, è «cancellata» o nascosta «nelle stelle che non vedi». La fitta auto-auscultazione lascia spazio anche a istanze meno evidenti, e tuttavia non meno decisive: fra queste, il risentimento nei confronti del presente e della «volgarità» dei tempi, del «mondo iniquo» (e vorrà pur dire qualcosa che una poesia porti in titolo la fine del comunismo). E ancora riemergono, qua e là, i frammenti di un intenso ‘romanzo familiare’, nel quale il protagonista principale – il padre – si può al contempo maledire o ripensare nostalgicamente.

Nella stessa chiave – quella di un rapporto irrisolto con il proprio passato – sembra andare la necessità che ha Marotta di «volersi ferire» e insieme di «dimenticare», di «uccidere per sempre mostri e fate / in un battibaleno». Non sarà un caso che questa poesia abbia, fra i suoi tratti distintivi, un fortissimo ‘sentimento del tempo’, un’acuta sensibilità per lo «sterminio degli anni». A questo senso della transitorietà delle cose si oppone, non di rado, la presenza, lo splendore oggettivo della natura. È proprio inseguendo questo doppio filo – l’effimero e il mortale che si intrecciano con una natura sempre immutabile e con il suo «avvento» – che si incontrano alcuni dei versi più belli di Marotta: «Il mare è più scuro del cielo / e una linea laggiù ha di lampi (…) Ti commuoveva la parola mare / per averla udita un giorno da lontano / come nuova, tanto uguale / a qualcosa che non c’era. / Ti mancava come tutte quelle cose / gli anni, le spine, le rose / che disperate inclinano».