Quel che distingue, nell’immaginario popolare, la vita dell’eroe da tutte le altre vite, è la sua capacità di dare all’istante il valore dell’assoluto; ovvero, di rimanere all’interno del momento in cui tutto può accadere, poiché tutto è sospeso tra passato e futuro, senza che né l’uno né l’altro, almeno in quel frangente, contino nulla. Questa sospensione dalla vita interiore rende possibile l’azione straordinaria che ci appare fuori dalla portata dei più.

L’ultimo libro di Maurizio Ferraris – Imparare a vivere (Laterza, pp. 152, € 15,00) è  anti-eroico, almeno nel suo proporci un viaggio, profondamente intessuto di cultura e di pensiero, dunque di filosofia, nel mondo interiore di quella parte di umanità che affannosamente e, spesso, confusamente, cerca di capire cosa stia facendo quando sta provando a vivere.

Possiamo immaginare che alla vigilia delle sue campagne di guerra, Alessandro non si facesse troppe domande e nemmeno troppo impegnative. Quanto a  Adriano, l’imperatore amante della filosofia e delle arti, è passato alla storia come una eccezione. Hegel, proprio per questo ci ha insegnato che la filosofia, ovvero l’analisi concettuale finalizzata a descrivere, a normare o a organizzare narrazioni che conferiscano un senso a fatti apparentemente irrelati, arriva sempre dopo: quando l’azione si è consumata, tutta o in parte. E resta da elaborare un significato, o da tradurre in teoria il senso di quanto è stato fatto.

Quando l’agire trova una pausa, o s’interrompe a causa di un qualche evento imprevisto, accade che divenga necessario misurarci con qualcuna di quelle domande che pensiamo di pertinenza della filosofia e che implicano, a torto o a ragione, un atteggiamento esistenziale particolarmente riflessivo: che cosa significa vivere? e, posto che si abbia una qualche risposta almeno confusa per questa domanda, come si può vivere bene?

Ora, chi legge il libro di Ferraris viene a capo piuttosto rapidamente di quella che ne è la domanda centrale: non  tanto cosa significa vivere, dato che si può benissimo campare senza domandarsi nulla circa l’essenza della vita, ma piuttosto come si possa agire per fare un buon uso del proprio essere al mondo.

La questione, dice Ferraris, è che ci si può accorgere, magari anche dopo un po’, di avere vissuto «ignorando la legge». E quale legge è così fondamentale da porsi come condizione del «mestiere di vivere»? Quale legge, se ignorata, può determinare il fallimento di una intera vita? Ferraris non lo rivela immediatamente, ma la struttura del libro porta a comprenderlo con una certa chiarezza: in questione è la legge che sta alla base della possibilità di convivere.

Nella sua conclusione Ferraris riprende un insegnamento hegeliano, là dove il filosofo di Jena indica nel riconoscimento quella disposizione fondamentale per strutturare, da un lato, l’individualità nei bambini, dall’altro le relazioni tra gli adulti. È nella forma del riconoscimento che la madre consente al bambino di separarsi da lei e di costruirsi una personalità autonoma, diversa e indipendente; è, ancora, nel riconoscimento dell’altro che l’individuo adulto è in grado di convivere nella coppia, nella famiglia e nella società. Convivere significa avere il  senso di sé come entità separata e autonoma dalle altre, e riconoscere questa stessa separatezza negli altri che incontriamo e che entrano, in modi diversi, nelle nostre vite. Un io sa convivere quando ha preciso il significato della propria individualità ed è, allo stesso tempo, in grado di riconoscere la peculiare soggettività di ogni altro, persino di quegli individui potenziali che sono i non nati.

E’ dunque un processo, questo, che va dal concreto (l’individuazione di ciascuno di noi nell’ambito della relazione con il materno) all’estremamente astratto (la capacità di riconoscere identità e diritti ai non nati). Perciò, la conclusione che Ferraris trae, ovvero che la capacità di convivere è la condizione necessaria per il conseguimento di una buona vita, vale sia nella sua dimensione sociale, sia in quella politica.