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Maugham, frivolezze e invidie su Kant e James

Maugham, frivolezze e invidie su Kant e JamesSir Gerald Kelly, The Jester (W. Somerset Maugham), 1911, Londra,Tate

Narratori inglesi I ritratti letterari dello scrittore inglese sono il corrispettivo dello stile dei racconti, tra gusto del pettegolezzo e volgarità. Tranne il saggio su Augustus Hare: Lo spirito errabondo, da Adelphi

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 28 ottobre 2018

La prima lingua parlata da William Somerset Maugham (per gli intimi «zio Willie») fu il francese. Era nato il 25 gennaio 1874, a Parigi ma in territorio britannico, nei locali dell’ambasciata, il cui quarto piano era stato trasformato in corsia di maternità. Si trattava di contrastare una recente legge del Paese ospite che, a compensare la scarsità di mano d’opera per le vittime della guerra del ’70, cui s’erano aggiunte quelle degli eccidi governativi per reprimere la Comune (pare fossero 30.000 i morti, quasi tutti di sesso maschile, molteplici le deportazioni), concedeva la cittadinanza a chiunque nascesse nei propri territori.
Rimasto orfano in tenera età e trasferito in Inghilterra, da parenti, Maugham avrebbe sviluppato, soprattutto per la perdita della madre, una balbuzie che non l’avrebbe mai lasciato e nell’autobiografico protagonista del romanzo Of Human Bondage (1915 – in italiano Schiavo d’amore), avrebbe trasposto in piede equino. Omosessuale, avrebbe sempre celato quella disposizione vivendo all’estero il più possibile ma anche con un matrimonio, da cui ebbe una figlia, nell’obbiettivo di sottrarsi ai rigori della legge britannica che considerava l’omosessualità un’attività criminale e aveva comminato due anni di galera a Oscar Wilde.
Medico, di formazione, Maugham conobbe i primi successi con opere teatrali, in seguito con romanzi (illeggibili le prime prove) e racconti, molti dei quali Hollywood avrebbe trasformato in film. La sua grande affermazione esplose tra le due guerre ma non furono soltanto le opere letterarie, né l’attività di spia per il suo Paese, ad assicurargli una non indifferente ricchezza; soprattutto furono le trasposizioni cinematografiche e oculati investimenti del guadagnato. Morì all’ospedale di Nizza, il 15 dicembre 1965, il feretro trasportato in fretta a Villa Mauresque, sua residenza a Cap Ferrat, per evitare l’autopsia e procedere all’incinerazione.
Apprezzava, come scrisse, la semplicità scritturale del teologo secentesco Jeremy Taylor e ambiva a portare nella narrazione di lingua inglese le qualità dei racconti di Maupassant. Anche se, con gli anni, lo stile dell’autore francese appare assai meno apprezzabile (diversamente da Flaubert) di quanto sia stato da metà Ottocento a quasi tutto il XX secolo, racconti come Pioggia testimoniano senz’altro a favore di «zio Willie» e la sua testarda buona volontà.
«Bravo scrittore di seconda fila», lo definì un critico: come dire un competente mestierante (forse lo si può ripetere per Maupassant) e insieme al fatto di non essere considerato un intellettuale, anche per un suo malcelato disprezzo verso costoro, fu una ferita che tentò di mascherare con cinismi e maldicenze.
Tutto questo pare necessaria introduzione alle prose di Lo spirito errabondo (The Vagrant Mood, versione italiana di Gianni Pannofino per Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 267, € 15,00), cinque saggi di cui uno su un contemporaneo di Velázquez, il pittore spagnolo Francisco de Zurbarán, gli altri di argomento letterario. Questi ultimi, con il loro predominio di invidia e pettegolezzi su un sia pur superficiale esame delle opere e/o ritratto degli autori, sono l’esatto corrispettivo dello stile di molti racconti anche se certamente non di informazione culturale è il risultato.
Che Kant potesse essere un piccolo borghese importa assai meno delle sue speculazioni; che lo storico e politico Edmund Burke (1729-1797), molto amato dallo stesso Maugham e reazionario ma dalla bella prosa, non seguisse, nella vita privata, i precetti moralistici che propagandava, non sembra particolarmente contraddittorio con la sua opera. Pur se giusnaturalista, Burke non riconosceva la base razionalistica dei diritti dell’uomo, fondamento della rivoluzione francese e degli epigoni di questa, i secessionisti delle colonie americane. Naturalmente, era ferocemente opposto alla Grande rivoluzione.
In «Alcuni romanzieri che ho conosciuto», gli strali di Maugham si puntano soprattutto su Henry James. Che con i suoi tic, timidezze, balbettii, pomposità, snobismi lo scrittore americano per molti versi fosse anche una macchietta, non stinge sulla sua opera, che precorre invenzioni formali del Novecento – e fu il Novecento, particolarmente nella persona di Philip Rahv, a scoprirne l’importanza seminale. Liquidarlo come incapace, come fa Maugham, è soltanto stupidità. Dicasi lo stesso del suo ignorare Conrad, dei cui racconti malesi i suoi propri appaiono pallide imitazioni. Affermare poi, in «Declino e caduta del genere poliziesco» che «I romanzieri ‘seri’ dei nostri giorni hanno molto spesso poco o nulla da raccontare» è soltanto una volgarità.
Decisamente più interessante, e riscatta The Vagrant Mood dalle sue frivolezze, è il saggio «Augustus», su Augustus Hare (1834-1903) di cui, ci conferma il biografo Ted Morgan (Somerset Maugham, London, 1981), «zio Willie» fu frequente ospite. Nipote del religioso riformista Augustus William Hare, il cripto-omosessuale «Augustus» fu prolifico autore di biografie di membri e collaterali della propria famiglia, e di libri di viaggio. In Inghilterra, articolava la propria vita, e quella degli ospiti, secondo schemi comportamentali che, retaggio settecentesco come i quadri di Gainsborough, erano stati perfezionati dall’imperiale aristocrazia vittoriana, e neppure la recente scomparsa (1901) della regina avrebbe estinto. Investivano anzitutto il quotidiano, dalle abluzioni del mattino ai pasti, le passeggiate, gli svaghi, i tempi di lettura e di conversazione, la cena, fino all’ora di andare a letto, la sera. Che da parte di «Augustus» si trattasse di una nevrosi o snobismo è assai meno importante della testimonianza che tali ritualità ci offrono delle autodifese delle classi abbienti vittoriane contro l’insorgere della «plebe». L’atteggiamento che, con qualche semplificazione, dovuta alla sempre più scarsa mano d’opera e relativo aumento dei salari, tracimò in gran parte del XX secolo, è utile strumento a una completa decodificazione di molte opere letterarie britanniche, da David Copperfield (1850), Grub street (1891) e persino all’«imagery» delle composizioni poetiche di Shelley e Keats, giù giù fino ai ben più recenti Keep the Aspidistra Flowing (1936), Coming up for Air (’39) e il disperato, sotto la sua scorza satirica, Brideshead Revisited (’45).

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