Matthieu Aikins, con lo sguardo clandestino
Intervista Il giornalista canadese-americano e premio Pulitzer sarà ospite oggi al festival Internazionale di Ferrara, con il suo libro «Chi è nudo non teme l’acqua» (Iperborea). «Ho lottato con la mia posizione duplice. Da un lato, dovevo essere un osservatore neutrale, dall’altro stavo viaggiando con il mio amico, le nostre vite dipendevano l’una dall’altra»
Intervista Il giornalista canadese-americano e premio Pulitzer sarà ospite oggi al festival Internazionale di Ferrara, con il suo libro «Chi è nudo non teme l’acqua» (Iperborea). «Ho lottato con la mia posizione duplice. Da un lato, dovevo essere un osservatore neutrale, dall’altro stavo viaggiando con il mio amico, le nostre vite dipendevano l’una dall’altra»
Sessantamila parole di appunti presi di notte, sul cellulare, nel corso di un lungo viaggio in clandestinità con l’amico Omar, cominciato il 29 agosto 2016 nella provincia occidentale afghana di Nimruz e concluso alla fine dello stesso anno in Europa. E quattro anni di ricerche, studi, nuove interviste e approfondimenti distillati in un libro dal genere inclassificabile, tra memoir di viaggio, reportage narrativo, inchiesta. Con Chi è nudo non teme l’acqua. Un viaggio clandestino (Iperborea, trad. Luca Fusari, pp. 416, euro 19), il giornalista canadese-americano e premio Pulitzer Matthieu Aikins si è aggiudicato l’Osborn Elliot Prize for excellence in journalism on Asia. E ci costringe a chiederci quanta violenza siamo disposti a tollerare per conservare i nostri privilegi.
Lo abbiamo intervistato in occasione del suo arrivo in Italia per partecipare al festival di Internazionale a Ferrara, dove parlerà di «frontiere» con Annalisa Camilli.
Siamo abituati a una rappresentazione dualistica della guerra, il bene contro il male, e di chi migra, tra scelte di libertà o necessità. Al contrario, lei parla della «natura disorganica della guerra», ben rappresentata dal cucciolo di tigre regalato al colonnello Abdul Raziq. Mentre Omar, il protagonista del suo libro, nel 2016 decide di lasciare l’Afghanistan per motivi complessi, tra cui l’amore per Laila…
La prima volta che sono entrato in Afghanistan era il 2008, come viaggiatore zaino in spalla. Facendo l’autostop ho incontrato alcuni trafficanti di droga che lavoravano con Abdul Raziq, a cui regalarono un cucciolo di tigre, e che era anche uno dei principali alleati dell’esercito Usa. È stata la mia introduzione alla complessità della guerra. Omar, tra i primi che ho incontrato nel Paese, era stato traduttore per i soldati stranieri. Gli era stato promesso un visto per gli Usa, poi negatogli dalla burocrazia. Così è stato costretto ad affidarsi ai trafficanti e così ho deciso di viaggiare con lui, fingendomi un migrante afghano. Omar fuggiva dai talebani, che conquistavano sempre più terreno, ma ha agito anche per amore, per assicurarsi un futuro. I rifugiati non sono solo vittime indifese. Hanno potere, speranze, si innamorano. Pensiamo a loro in chiave politica, perché la nostra idea deriva dalla Guerra fredda, ma oggi non si può capire chi attraversa le frontiere senza tener conto della disuguaglianza globale tra il mondo sviluppato e il resto del mondo.
Nel viaggio passate per alcuni «hub» delle migrazioni, dove confliggono due spinte diverse: da un lato i dispositivi statuali per il controllo delle frontiere, dall’altro l’organizzazione informale di quanti puntano a eludere quel controllo. Al City Plaza di Atene, un hotel occupato, lei da giornalista-migrante diventa anche attivista. Vede un terreno comune tra attivismo e giornalismo?
Per vivere in quel palazzo occupato abbiamo dovuto aiutare, pulire, partecipare. Era un posto meraviglioso, in cui le persone si mescolavano in un modo radicalmente aperto ed egualitario. Ci siamo ritrovati lì nel pieno della crisi migratoria in Grecia e di quella economica, causata dall’austerità. Era il periodo in cui l’apparato di controllo statuale, in Grecia e in Europa, si stava disgregando. Le frontiere si sono aperte, è avvenuto il «miracolo». Abbiamo intravisto nuove possibilità di organizzazione, di solidarietà, di azione. Sono risultate fugaci, ma era importante esserci, testimoniare. Quell’esperienza mi ha trasformato personalmente, ma come giornalista e scrittore il mio dovere rimaneva scrivere la verità.
Con Omar siete finiti sull’isola greca di Lesbo, nel famigerato campo di Moria, nel periodo in cui si facevano concreti gli esiti dell’accordo tra l’Unione europea e la Turchia. Secondo la sua esperienza, quanta violenza è necessaria per ostacolare le migrazioni?
Le persone che fuggono dalla povertà e dalla brutalità possono essere scoraggiate solo con più violenza. È il cuore del nostro sistema di frontiere. Ma questa violenza ci appare inquietante: va nascosta, occultata. La funzione dei campi è costringere le persone a una morte lenta, a una non-esistenza priva di speranza. Serve a dissuadere altri e a evitare di farci vedere la gente picchiata dalla polizia al confine, i corpi annegati, tutte quelle sofferenze che disturbano la nostra sensibilità umanitaria liberale. Il campo di frontiera è un dispositivo di violenza nascosta.
Lesbo è il luogo in cui è più evidente il suo privilegio di cittadino con passaporto canadese e statunitense. Sarebbe bastata una telefonata per lasciare l’isola. Come ha affrontato quella condizione?
Ho scelto di restare, perché andar via avrebbe significato abbandonare il mio amico. Ho viaggiato con i rifugiati, ho rischiato la vita sulle stesse barche, ma non pretendo di essere stato un rifugiato, né di capire veramente cosa significhi esserlo. Il libro mostra questa impossibilità. È doloroso riconoscerla. Vorremmo immaginare che siamo tutti uguali, che solidarietà e uguaglianza vincono. Ma ci sono profonde divisioni tra Paesi sviluppati e gli altri in via di sviluppo, tra europei e afghani, i confini esistono anche dentro di noi. Non possiamo trascenderli solo con un atto di volontà.
Nel corso del libro, lei si interroga spesso sulla sua postura. Nella provincia afghana di Nimruz perde pazienza e distacco, pentendosene; altrove dice di voler essere un osservatore neutrale, come l’obiettivo di una macchina fotografica. Come ha gestito questa discrepanza tra l’amico e il giornalista?
Fin dall’inizio ho lottato con la mia posizione duplice. Da un lato dovevo essere un osservatore neutrale, dall’altro stavo viaggiando con il mio amico e le nostre vite dipendevano l’una dall’altra. Questa contraddizione è diventata sempre più difficile con il passare del tempo. Ho capito allora che dovevo affrontare le situazioni in modo etico: aiutare altri esseri umani è giusto, aiutare un amico è giusto. Alla fine ciò è diventato molto più importante che non essere un osservatore neutrale. Ma credo che nel rivivere il viaggio, nel farne letteratura, si ritorni inevitabilmente a quella separazione, a quella posizione di estraneità, che è malinconica ma anche di grande forza.
Ha affermato che come giornalista il suo compito era scrivere la verità. Ma per accedervi, si è finto qualcun altro, viaggiando in incognito, dicendo una bugia, come hanno fatto, con obiettivi diversi, il califfo abbaside Harun al-Rashid, l’orientalista britannico Richard Francis Burton, il panislamista Jamal al-Din al-Afghani, che lei cita nel testo. Cosa ha perso nel travestimento e cosa ha ottenuto?
La «clandestinità» ti fa perdere quel tipo di purezza etica che i giornalisti amano assumere. Si scambia un insieme di regole molto semplici con un insieme molto più difficile di quesiti morali. Ed è vero che c’è una ricca tradizione di viaggiatori orientalisti, alla Burton, che hanno adottato il travestitismo. Ma farsi passare per qualcun altro avviene anche nella vita ordinaria, dove abitiamo sempre dei ruoli. E lavorando «sotto copertura» ho guadagnato maggiore accesso alle vite ordinarie dei rifugiati: nel parlarmi hanno rinunciato a quel copione che credono che ogni giornalista voglia sentirsi dire.
Il libro include citazioni di poesie sufi e di saggisti politici come Frantz Fanon, ma anche qualche indicazione sulle sue ispirazioni letterarie, tra cui «Il popolo dell’abisso» di Jack London e «La strada di Wigan Pier» di George Orwell. Altrove ha citato anche «Maximum City» di Suketu Mehta. Quale i suoi riferimenti?
Sono attratto dai libri unici, che combinano i generi e sviluppano uno stile peculiare. Ho tratto ispirazione tra gli altri da Maximum City di Suketu Mehta e da Mezzanotte in Sicilia di Peter Robb, un bellissimo libro sul cibo e sulla politica italiana. Mi sono ispirato anche a George Orwell, è vero, al modo in cui viaggiava ed esplorava le grandi questioni sistemiche, a partire dalle contraddizioni nella vita ordinaria delle persone. Ho letto scrittori afghani come Ali Akbari, con il suo The Illegal Journeys, e ho molto amato l’autore curdo iraniano Behrooz Boochani, che in Nessun amico se non le montagne racconta la sua detenzione all’isola di Manus, in Australia.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento