Ormai un secolo ci separa dal primo Manifesto del surrealismo di André Breton, apparso presso le Éditions du Sagittaire di Parigi un paio di mesi prima del numero inaugurale della «Révolution Surréaliste». Nella copertina della rivista campeggiano tre fotografie di Man Ray, disposte a piramide, ritraenti storiche scene di gruppo sopra il titolo programmatico Bisogna arrivare a una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo. All’interno del fascicolo figura un fotomontaggio degli aderenti al movimento che ruota intorno all’immagine di Germaine Berton, operaia anarchica coinvolta nell’attentato del 22 gennaio 1923 perpetrato contro il nazionalista monarchico Marius Plateau. In calce è riportata la seguente frase di Baudelaire, con il nome contrassegnato dalle sole iniziali: «La donna è l’essere che proietta la più grande ombra o la più grande luce nei nostri sogni».

L’impostazione grafica della rivista si ispirava per la sua sobrietà ai periodici scientifici dell’epoca, accentuando il contrasto con temi e contributi eccentrici proposti dai surrealisti in quel numero inaugurale: oltre a specimina riguardanti la scrittura automatica e il resoconto dei sogni, sulla falsariga della scoperta freudiana, veniva annunciata per il fascicolo successivo l’inchiesta sul suicidio e propagandata l’attività del Bureau de recherches surréalistes, sito al n. 15 di rue de Grenelle, nel cuore della rive gauche, in un locale messo a disposizione dal padre banchiere di Pierre Naville. Qui, secondo Nadeau, si accoglievano tutti i giorni dalle 16,30 alle 18,30 «inventori, pazzi, rivoluzionari, disadatti, sognatori», come se il circolo surrealista scarseggiasse di simili profili: Breton fu costretto a interrompere le sedute medianiche degli adepti della prim’ora a causa delle pulsioni omicide di Desnos e Crevel, i due più accreditati esponenti dell’écriture automatique, tecnica polemicamente disattesa da Éluard. Questi condivideva con Max Ernst la moglie Gala che, di lì a poco, si incapriccerà di Dalí.

Basterebbe l’operato degli antesignani Jacques Vaché e Arthur Cravan, immolati al loro «esile mito» di suicidés de la société in pectore, volti a prefigurare il libello artaudiano su Van Gogh del 1947. Jacques Rigaut preferiva drogarsi e collezionare scatole vuote di fiammiferi anziché scrivere. Non sussisteva nemmeno la parvenza di un concetto, quel vuoto si contrapponeva ai ready-made duchampiani per la sua gratuità. Lo trovarono inerme nel suo letto, elegante come un dandy ottocentesco, nella vecchia dimora appartenuta un tempo a Chateaubriand, ora adibita a clinica. Sul petto si diramava la rosa di sangue scaturita da un colpo di rivoltella; per non sbagliare Rigaut si era servito di un regolo.

Questi e altrettanti divertenti aneddoti (si fa per dire) sono riportati in Surrealisti ed espatriati La Parigi letteraria degli anni Venti (pp. 504, € 16,00) di Matthew Josephson (1899-1978) che minimun fax pubblica nella collana «Introvabili», recuperando la valida traduzione di Matilde Boffito Serra, apparsa con il titolo Storia di una avanguardia per il Saggiatore nel 1965. Il titolo originario è Life Among the Surrealists, edito da Holt, Rineheart and Winston nel ’62. L’autore, nato a Brooklyn da genitori ebrei, oltre a stilare biografie dedicate a classici francesi (Rousseau, Stendhal, Hugo, Zola, ma anche il connazionale Edison) e una dura requisitoria contro il capitalismo americano (The Robber Barons, tradotto da Longanesi nel ’47 con il titolo I baroni ladri), fondò varie riviste e frequentò i più importanti scrittori dell’epoca.

E, in effetti, questo libro è una sorta di godibile resoconto documentario che, partendo dalle occorrenze biografiche dell’autore, ripercorre un’epoca storica inimitabile, cadenzandola su rocambolesche vicende legate alle avanguardie con cui entrò in contatto a Parigi nell’entre-deux-guerres: dal dadaismo al surrealismo, con un accompagnamento di voci americane atte a propagarsi oltre la direzione suggerita dal vento. Gertrude Stein coniò al riguardo la definizione di lost generation, immortalata da Hemingway in Festa mobile. Entrambi i déracinés compaiono nell’ambito di una narrazione fluttuante tra Montmartre e Greenwich Village, Berlino weimariana e Borsa di Wall Street, seguendo in maniera ondivaga le tracce di quell’iniziazione intellettuale che, analogamente al Grand Tour settecentesco, annoverava nomi di spicco del modernismo: E.E. Cummings, Ezra Pound, T.S. Eliot, Sherwood Anderson, Francis Scott Fitzgerald, la moglie Zelda. Su tutti spicca Hart Crane, l’autore di The Bridge, annegatosi dopo una vita spesa a dilaniare sistematicamente le proprie chimere, assemblate con sforzo di Sisifo tramite il disegno filiforme di castelli in aria, pericolanti quanto quelli di Klee. Si indugia con costrutto intorno a critici (Edmund Wilson), narratori (John Dos Passos), soprattutto poeti (William Carlos Williams, Allen Tate, la cavillosa Marianne Moore).

Josephson riporta episodi poco conosciuti, a cominciare dalla scampata aggressione a Cocteau, considerato dai surrealisti l’incarnazione dell’anticristo. Il futuro autore degli Enfants terribles non si presentò a un pranzo in onore di Pound e allora Desnos brandì il coltello contro il festeggiato, senza gravi conseguenze. Desnos, con la spavalderia di un acrobata il cui filo è teso «da un continente a un altro», dichiarava di essere in contatto telepatico con Duchamp a New York e di ricavare da tale comunicazione una serie scoppiettante di calembours e contrepèteries, confluiti nella raccolta poetica Corps et biens. Lo stereotipo dell’androgino, ventilato nell’alter ego Rrose Sélavy, rimanda agli interessi alchemici di Duchamp, che si svilupperanno in forma più scoperta nella produzione successiva, partendo dal Grande Vetro, ispirato al groviglio di farneticazioni contenuto nel Locus Solus di Raymond Roussel, da cui riprese la formula delle machines célibataires.

Nonostante alcune parti risultino un po’ ridondanti, Josephson riesce nell’intento di restituirci appieno la magia delle années folles. Ricrea così la Weltanschauung dadaista con l’avvento di Tzara a Parigi che, dopo le provocazioni del Cabaret Voltaire zurighese, continuò a influenzare artisti e scrittori d’avanguardia. Nel 1919 vide la luce la rivista «Littérature» diretta da Aragon, Breton e Soupault. Questi ultimi due firmarono Les Champs magnétiques, unanimemente considerato il primo testo surrealista, composto con la tecnica automatica e anticipato sulla stessa rivista, prima di apparire in volume nel 1920 per i tipi di Au sans pareil. Lo stesso Breton aveva in seguito sminuito l’apporto di Tzara: «Gli artifici tipografici, che sono la principale civetteria di Dada (…) non vi giocano alcun ruolo».

Si arriva così al Secondo manifesto bretoniano, apparso nell’ultimo numero della «Révolution Surréaliste» nel 1929. Vengono ottemperate le estreme epurazioni compiute nel nome di un engagement che rappresenta il vero, irriducibile motivo della débâcle surrealista. Dopo le espulsioni di Artaud, Soupault, Desnos, Leiris, Vitrac, Queneau, Prévert, Masson, si defilarono anche i fedelissimi della gauche Éluard e Aragon, abbagliati dal credo staliniano, osteggiato da Breton in qualità di seguace di Trockij (vedi il più tardo viaggio in Messico e la comune stesura del Manifesto per un’arte rivoluzionaria indipendente). Il periodo d’oro del surrealismo termina con il suicidio, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 giugno 1935, di René Crevel, sfibrato dalla tisi e incapace di conciliare le intemperanze dei surrealisti con il retaggio ortodosso comunista in occasione del congresso parigino dell’AEAR. Qualche giorno prima Breton aveva schiaffeggiato pubblicamente a Montparnasse il rappresentante sovietico Il’ja Erenburg, reo di paragonare i surrealisti a un branco di pervertiti. Le ultime parole di Crevel, affidate a un bigliettino, sembrano scolpite sul marmo: «Siete pregati di cremarmi. Disgusto».