Matthew Barney, Diana, il lupo e l’incisore
Festival Lo schermo dell'arte, rassegna fiorentina, ospita «Redoubt», girato interamente tra le suggestive montagne innevate dell’Idaho
Festival Lo schermo dell'arte, rassegna fiorentina, ospita «Redoubt», girato interamente tra le suggestive montagne innevate dell’Idaho
La cosa migliore per avvicinarsi a un film dell’artista americano Matthew Barney è quello di non leggere assolutamente nulla sul film stesso: né articoli, né dichiarazioni, né tanto meno il pressbook. Uno sguardo «vergine» avrà il vantaggio di disorientare totalmente lo spettatore ma, al tempo stesso – pur non facendogli comprendere a pieno quel che succede in oltre due ore di immagini senza dialoghi – di affascinarlo, sedotto da una serie di azioni di cui non coglie il senso.
Il cinema di Barney – a partire da quell’opera complessa che risponde al nome di Cremaster, il ciclo di 5 film realizzato tra il 1994 e il 2003 – ci ha abituato a una mescolanza di tre elementi: a) performance; b) narrazione o pseudo-narrazione; c) riflessione sul farsi dell’opera d’arte. E non fa eccezione quest’ultima fatica, Redoubt, prodotta come sempre dalla gallerista newoyorkese Barbara Gladstone e girata interamente tra le suggestive montagne innevate dell’Idaho.
Redoubt è un capolavoro di architettura visiva (e visionaria) in cui l’artista, che interpreta un incisore – dunque se stesso, dal momento che molte sue opere degli ultimi anni sono appunto incisioni realizzate con varie tecniche – mescola mitologia antica e dimensione cosmica, creando parallelismi continui, in montaggio alternato, tra momenti artistici (il processo delle lastre che vengono immerse in una soluzione elettrolitica) e momenti coreografici veri e propri, che si svolgono nel paesaggio richiamando riti ancestrali in cui l’uomo entra a contato con la natura. Azioni e rituali che, culminando in una eclisse lunare, rimandano a ulteriori significati alchemici. Si, perché Redoubt è sicuramente un’opera sulla trasmutazione degli elementi.
Leggendo successivamente alcune note sul film, tutto appare più chiaro. Il mito di partenza è quello di Diana (impersonata da Anette Watcher) e di Atteone (Barney); quest’ultimo viola il territorio della dea cacciatrice ritraendola in una serie di incisioni, venendo così punito: ma a farne le spese è la sua opera grafica, la quale subisce delle modifiche sotto i colpi del fucile di Diana. La dea (vestita con una tuta mimetica) è accompagnata da due vestali: le vergini-performer, Eleanor Bauer e Laura Strokes, che per tutto il tempo creano «quadri» coreografici intorno a lei, scene che prefigurano l’atto di uccidere. Ci sono poi altri due personaggi femminili che arricchiscono la narrazione: colei che si occupa del processo di elettroplaccatura delle lastre (KJ Holmes) e una giovane hoop dancer (Sandra Lamouche): entrambe, in due spazi separati, unite telepaticamente da un’invisibile energia, costruiscono un modello cosmico mediante cerchi colorati.
I sottili richiami iconografici, l’associazione tra la texture delle lastre che ci vengono mostrate nelle diverse fasi processuali e le visioni naturali, la trama di performance che fanno da corollario alla narrazione principale, sono tutte visioni che Barney costruisce, inquadratura dopo inquadratura, con una geometrica precisione e accuratezza: straordinaria la fotografia di Peter Strietmann che alterna il diurno e il notturno. I tasselli si ricompongono gradualmente sotto i nostri occhi rivelandoci il disegno finale. La presenza di un inafferrabile lupo (e dei lupi che finiranno con il devastare la casa-laboratorio dell’incisore, installata in un camper) è un simbolo ulteriore che scandisce una diegesi metafisica e sospesa, suddivisa in sei cacce, tra i topoi dell’antichità (il mito greco) e quelli della modernità (il mito americano), rese ancora più stranianti dalla colonna sonora di Jonathan Bepler.
Chi è dunque l’artista? È colui che osa sfidare la divinità tentando di cogliere la perfezione del cosmo? Colui che per creare deve affrontare un pericoloso processo di metamorfosi e di comunione spirituale con la natura?
Il film è stato installato a Pechino tra il 2019 e il 2020 presso lo spazio museale dell’UCCA e, insieme ad esso, sono state esposte una serie di opere ad esso collegate: cinque sculture di grandi dimensioni basate su tronchi bruciati provenienti dalle stesse Sawtooth Mountains dove è stato girato Redoubt, nonché oltre una cinquantina di incisioni e lastre di rame placcate, tutte realizzate con la tecnica sviluppata e perfezionata durante il film. Per Barney la mise en scène cinematografica, dunque, è l’occasione di generare opere in fieri, così come l’oggetto manufatto è strettamente legato all’immagine, secondo una dinamica circolare. Fare arte e fare film, insomma, diventano due fasi di un unico e indissolubile processo estetico.
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