Matteo Russo, accendere luci in terra ostile
Torino Film Festival «Lux Santa», documentario scritto dal regista con Carlo Gallo e presentato in anteprima nei giorni scorsi alla kermesse piemontese
Torino Film Festival «Lux Santa», documentario scritto dal regista con Carlo Gallo e presentato in anteprima nei giorni scorsi alla kermesse piemontese
Lux Santa comincia da scintille di fuoco che si librano nel buio pece della notte del rione Fondo Gesù a Crotone. Da un suono crepitante e da pagliuzze infuocate. Sono segni di una metamorfosi spirituale che muove dalla bruta concretezza materiale di «un territorio ostile»- come lo definisce il regista, Matteo Russo – e da uno spiazzo deserto, sospeso fra le nuvole di dicembre e l’azzurro immenso a volte cupo a volte cangiante e assolato del cielo.
Il documentario – scritto dal regista con Carlo Gallo e presentato in anteprima nei giorni scorsi a Torino Film Festival – sceglie di essere con le vite i volti i corpi i respiri di un piccolo gruppo di ragazzi costretti a farsi adulti prima del tempo, a sopperire all’assenza dei padri – scomparsi o in carcere – e a confrontarsi col grigiore di destini in apparenza obbligati, di vite e di luoghi a sottrarre.
Pure, nonostante i pesi e le tristezze che ognuno di loro si porta dentro e sulle spalle, pulsa nel gruppo, incontenibile, un desiderio radicato nel passato di quella terra e nelle sue tradizioni: il progetto di innalzare la piramide di legno più bella e più alta fra tutti i rioni, da bruciare in onore di Santa Lucia, nel giorno a lei dedicato – il 13 dicembre – per restituirle, secondo quanto tramandato, la luce della vista di cui la santa stessa è protettrice (nell’iconografia è ritratta con gli occhi su un piattino d’argento e a Crotone c’è l’usanza di gettare santini nella pira).
Il racconto – fatto di echi ancestrali e di un qui e ora appassionato – sa dunque incardinarsi, con forza e delicatezza insieme, in un varco d’azione che infrange gli orizzonti occlusi del quotidiano per aprirsi a un tempo eccezionale come sospeso gravido e sognante. A un altrove tutto da costruire, nel senso letterale del termine: dapprima scavando una grande buca e issando con fatica e sforzi comuni – tentativi e cadute – un altissimo palo con in cima una croce, e poi ergendo e fissando tutt’intorno, con chiodi e martello, l’impalcatura piramidale, fatta di travi e legni recuperati un po’ ovunque presso gli abitanti che vogliono liberarsi di vecchi mobili o scardinando stipiti e porte da palazzi in rovina, a volte perfino lanciandoli in modo liberatorio dal balcone.
Questi materiali sono poi trasportati dai ragazzi coi carrelli del supermercato da un punto all’altro del paese, di quando in quando rifocillandosi dalle famiglie, dividendosi una birra, o andando insieme a fare un tatuaggio, con scritto Niente paura o Salva la tua anima… Due di loro hanno uno scontro, si accusano di non lavorare abbastanza, un altro cerca di mettere pace, pensiamo alle cose belle, al fuoco: dobbiamo essere uniti.
Innanzi al mare si chiedono a vicenda quando potranno andare a incontrare i padri in carcere, guardano gli stormi degli uccelli e i loro volti sono attraversati dalla malinconia; uno di loro, che non lo ha mai conosciuto, si reca col gruppo al cimitero e racconta di aver scavalcato di notte i cancelli per sentire la vicinanza.
«Lux Santa ha l’intento di sollevare il velo della cronaca nera e mostrare spiragli di una bellezza solitamente nascosta» ha scritto Matteo Russo nelle note che accompagnano il film. Ma c’è anche il desiderio – realizzato – di assottigliare la distanza che separa chi guarda, dai suoi ragazzi (che sono anche suoi concittadini): da Lupin (Francesco Vaccaro), da Zucchero (Francesco Scarriglia) da Pidux (Enrico Scerra) e da Citos (Antonio Citati).
Che sia un selfie in bagno insieme, con un’espressione che ricorda la serietà delle foto degli antenati, o un dialogare della telecamera, in una danza dinamica dei corpi, degli spazi e degli sguardi, c’è, dunque, in Lux Santa un’immediatezza che spinge a restare con questi ragazzi, in questa comunità che pure mostra i ruoli di genere ancora tradizionalmente separati (le donne e le bambine compaiono solo all’interno dei nuclei familiari), attraversando con loro questa notte fatta di purificazione da antichi residui, lavorando alla luce della torcia del cellulare.
E c’è, sì, la voglia di uscire sul giornale, di superare i fuochi degli altri rioni, ma non è la competitività il motore primario: il cuore è chiamare a raccolta via citofono chi li ha sostenuti con un caffè, chi li ha spronati, il cuore è guardare a quella piramide da ogni angolatura: dal basso, dall’alto, in un campo lungo che comprende anche il contiguo campo di calcetto e le pale eoliche che fanno da cornice ai palazzoni sullo spiazzo. Il cuore è catene di mani che cooperano, è aspettare di accendersi, tornare al sacro, all’incipit, del documentario e di ogni cosa.
Mentre fluisce, perfetta, per questa struttura drammaturgica così essenziale e in perenne movimento, per quest’opera dove – non è troppo dire – si respira con gran piacere un’eco pasoliniana, la musica di Ginevra Nervi, contrappunto al nitore delle immagini di Andra Benjamin Manenti. Dobbiamo spaventarci della morte? Dirà a un certo punto un sostenitore del gruppo. Nell’attesa accendiamo un fuoco.
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