Matteo Gaddi: «Profitti alle stelle, crollano i salari, le imprese paghino»
Intervista Parla il ricercatore e membro della Fondazione Claudio Sabattini, coautore del libro "L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo" (Punto Rosso): «Ecco come i lavoratori stanno subendo le politiche di Fed, Bce e governi»
Intervista Parla il ricercatore e membro della Fondazione Claudio Sabattini, coautore del libro "L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo" (Punto Rosso): «Ecco come i lavoratori stanno subendo le politiche di Fed, Bce e governi»
Matteo Gaddi, ricercatore e membro della fondazione Claudio Sabattini , coautore del prezioso e attualissimo libro «L’inflazione Falsi miti e conflitto distributivo» (Punto Rosso, pp.216, 18 euro*), le banche centrali e i governi sostengono che l’attuale iper-inflazione sia dovuta a un eventuale rischio di un aumento della domanda che indurrebbe a una spirale con i salari. Per questa ragione aumentano i tassi di interesse. È giusta l’analisi? Ed è giusto l’antidoto?
Sono sbagliate sia l’analisi che l’antidoto. Questa politica porterà a conseguenze sociali molto pesanti. Il vero effetto che produrrà sarà un calo degli investimenti, dell’attività produttiva, dell’occupazione, dei redditi da lavoro. Oggi sembra che l’inflazione cada dal cielo. Non è così. Quando l’inflazione registra la variazione dei prezzi significa che c’è qualcuno che sta cambiando i prezzi, cioè le imprese che ottengono maggiori profitti.
Il presidente della Federal Reserve (Fed) Jerome Powell ha sostenuto, in pratica, che per evitare che i salari salgano domani, bisogna punire oggi i lavoratori. Da dove nasce questa mentalità?
Dalla teoria quantitativa della moneta la cui finalità è creare passaggi sociali traumatici e arrivare a un maggiore disciplinamento della forza lavoro. Le banche centrali conoscono l’esistenza della stagnazione salariale, ma leggono il fenomeno usando la logica delle aspettative. Dato che c’è l’inflazione, e presumibilmente in futuro i lavoratori chiederanno l’aumento dei salari, allora oggi introducono misure che frenano la possibilità di chiedere tali aumenti. Così facendo producono una redistribuzione del reddito a favore dei redditi da capitale o da impresa.
In Italia questa storia si intreccia con i salari che non crescono dagli anni Novanta. Tutto inizia con il cosiddetto protocollo Ciampi del 1993, siglato dai sindacati confederali e contestato dai sindacati di base. Qual è il bilancio oggi?
Il cambio di prospettiva è stato radicale. Fu il colpo definitivo alla scala mobile, e venne stabilito che la negoziazione sugli incrementi salariali dovesse avvenire tenendo come tetto massimo l’inflazione programmata per i successivi anni. Se gli incrementi dei salari nominali incontrano il tetto dell’inflazione, non ci sarà mai la redistribuzione del reddito e la quota profitti e quella salari restano inalterate. Quando invece l’inflazione aumenta si determina una riduzione del salario reale. Ed è quello che sta avvenendo oggi.
In che modo?
Nel libro abbiamo fatto un calcolo su che cosa è successo al salario reale dal gennaio 2020 ad aprile 2023. Se fissiamo l’indice del salario reale a 100, dopo tre anni ad aprile 2023 abbiamo constatato che è crollato a 87,18. Il salario reale si è ridotto di quasi il 13%. Il grosso di questo calo si è concentrato tra il 2021 e i primi mesi del 2023. Abbiamo analizzato il bilancio delle imprese italiane tra il 2017 e il 2021. Gli utili netti sono aumentati del 77%. Quella che stiamo vedendo è dunque un’inflazione da profitti: le imprese hanno aumentato i prezzi e hanno incassato più guadagni. E questo nonostante l’aumento dei costi dell’energia. Contrariamente alla vulgata generale. a parte i settori energivori, nel resto della produzione questi costi sono stati molto contenuti.
Nel 2009 un governo Berlusconi ha ripensato il percorso del 1993 peggiorandolo. Cosa accadde?
Fu siglato l’accordo separato tra Confindustria, Cisl e Uil senza la Cgil. Il meccanismo dell’inflazione programmata è stato sostituito con l’inflazione attesa misurata con un indice che non esiste nelle statistiche ufficiali, cioè l’Indice dei prezzi al consumo armonizzato (Ipca) depurato dall’effetto dei beni energetici importati. Se petrolio e gas schizzano in alto come è successo di recente questa variazione non viene catturata dall’Ipca depurato. Questo è un problema perché il salario dei lavoratori si confronta con l’Ipca puro. Nel 2022 quest’ultimo, prodotto dall’Istat, ha misurato una variazione dell’8,7%, mentre l’Ipca depurato del 6,6%. Questo significa che l’Ipca depurato, frutto dell’accordo separato nel 2009, ha prodotto effetti negativi. Anche per questo la Cgil chiede oggi una riforma di tale sistema.
È possibile che un solo aumento dei salari oggi non basti. Cosa si può fare?
Un meccanismo di indicizzazione salariale tutela il salario reale rispetto all’inflazione ma sempre in maniera parziale e con un certo ritardo. Anche se ce ne fosse uno mensile, e in Italia è sempre stato trimestrale, la tutela sarebbe parziale perché avverrebbe ex post. In ogni caso più è frequente l’indicizzazione meglio è. L’altra leva sarebbe quella del controllo pubblico dei prezzi di una serie di beni e di servizi: l’energia elettrica, il gas, i trasporti, la telefonia, il cibo, per esempio. È un obiettivo al quale si dovrebbe tendere. Ma la sua realizzabilità dipende sempre dai rapporti di forza in campo.
Il taglio di tre punti del cuneo fiscale fatto dal governo Meloni è stato giudicato insufficiente. I sindacati chiedono un taglio di cinque a vantaggio dei lavoratori. Come lo si finanzia?
Un simile taglio è necessario e deve accompagnarsi a una riforma complessiva del sistema fiscale. Se riduce il carico fiscale sui redditi da lavoro bisogna incrementare quello delle imprese e del capitale. Il taglio dovrebbe essere soprattutto accompagnato dall’aumento dei salari. Cioè sono le imprese che dovrebbero pagare salari più alti: i profitti che hanno fatto in questi anni e che stanno tutt’ora facendo lo consentono ampiamente.
In molti settori gli accordi nazionali non sono ancora stati rinnovati. Solo nel terziario circa 4 milioni di addetti. Come spiega questi ritardi ormai così ricorrenti?
Ci troviamo davanti a una debolezza del mondo del lavoro determinata dalle sconfitte subite nel passato e a elementi strutturali come la precarietà della nuova forza lavoro. Vanno ricostruiti i rapporti di forza favorevoli per evitare queste lunghe e continue vacanze contrattuali che non fanno altro che indebolire i livelli dei salari nominali e, con l’inflazione, anche del salario reale. In questi anni la lotta di classe l’hanno fatta per davvero solo i padroni.
*«L’inflazione Falsi miti e conflitto distributivo» (Punto Rosso, 216 pp. euro 18) con interventi di Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Demostenes Floros, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini, Roberto Lampa, Gianmarco Oro, Stan De Spiegelaere, introduzione di Joseph Halevi.
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