Mattarella lancia il primo appello. Berlusconi: presente
Dopo il voto Il presidente chiede «senso di responsabilità». Il leader di Fi apre alle larghe intese: «Farò tutto il possibile per consentire all’Italia di darsi un governo». I 5 Stelle apprezzano le parole del capo dello stato. Ma l’ipotesi di un governo sostenuto dal Pd è remota
Dopo il voto Il presidente chiede «senso di responsabilità». Il leader di Fi apre alle larghe intese: «Farò tutto il possibile per consentire all’Italia di darsi un governo». I 5 Stelle apprezzano le parole del capo dello stato. Ma l’ipotesi di un governo sostenuto dal Pd è remota
È solo un passaggio del breve discorso in occasione dell’otto marzo ma inevitabilmente attira l’attenzione generale. Il presidente Mattarella invoca il «senso di responsabilità». Chiede a tutti di «saper collocare al centro l’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini». Nel linguaggio paludato della politica significa chiedere a molti, se non proprio a tutti gli attori in campo, di accettare qualche doloroso sacrificio. Subito dopo di lui l’altro presidente, Giorgio Napolitano, riprende alla lettera le formule del successore e aggiunge di suo quel che il capo dello Stato in carica non può dire, definendo la crisi «difficilissima». Poi risolve sbrigativamente il dramma del Pd, partito al quale più di ogni altro verrà chiesto di ingoiare un boccone amaro: «Evento annunciato. Destino quasi compiuto». De profundis.
POCHE ORE E ARRIVA la risposta di Silvio Berlusconi, trasudante «senso di responsabilità»: «Intendo fare tutto il possibile, con la collaborazione di tutti, per consentire all’Italia di darsi un governo». Subito dopo il leader di Forza Italia, autonominatosi regista dell’intera compagnia, finge di rassicurare Matteo Salvini: «Fermo restando l’impegno a sostenere il candidato premier indicato dal maggiore partito della coalizione si devono produrre le condizioni di una maggioranza e di un governo».
QUELLA DI BERLUSCONI è una promessa che non costa niente. Perché quelle condizioni si producano, o anche solo per provarci, è necessario che il candidato indicato dal maggior partito, al secolo Salvini Matteo, si ritiri. Sperare che il Pd, senza il cui appoggio nemmeno varrebbe la pena di considerare l’ipotesi di un governo di destra, accetti di sostenere leghista significherebbe aver perso il senso della realtà.
DISCORSO SIMILE, anche se non del tutto identico, vale anche per l’altra possibile coalizione, quella tra Movimento 5 Stelle e Pd: probabilmente in quello scenario il prezzo sarebbe un passo indietro di Luigi Di Maio. Ufficialmente tutti i dem tranne Michele Emiliano negano fieramente questa eventualità. La realtà è che mezzo partito, quello ormai compiutamente «antirenziano», proprio a quella formula mira, mentre il fronte opposto, quello vicino al segretario uscente e che conta al momento il grosso delle truppe parlamentari, preferirebbe di gran lunga l’appoggio a un governo di centrodestra.
IN ENTRAMBI I CASI, PERÒ, il prezzo dovrebbe essere salato. Certamente una rimodulazione sensibile del programma e l’accettazione di presenze nel governo quasi commissarianti, ma probabilmente anche un gesto dal valore simbolico inestimabile come il sacrificio di Di Maio, per i 5 Stelle. L’uscita di scena dell’«estremista» Salvini per il centrodestra.
Tra le due opzioni la più debole, al contrario di quel che si direbbe stando alle apparenze, è l’intesa M5S-Pd. Qestione, come sempre, più di pallottoliere che di affinità politiche. Per un governo a cinque stelle è necessario il voto a favore di tutti i parlamentari del Pd, 112 deputati e 53 senatori, senza contare gli eletti delle altre formazioni e di LeU. Il pollice verso dei renziani, che al momento pare irremovibile, basta e avanza a mettere quella chance fuori gioco. Ma anche un sì strappato di malavoglia comporterebbe un rischio di sorprese catastrofiche in aula altissimo.
CON LA DESTRA TUTTO sarebbe più facile. Non servirebbe neppure un sofferto voto a favore. Basterebbe ripiegare su un «governo della non sfiducia», cioè sull’astensione alla Camera e sull’uscita dall’aula al Senato. La decapitazione di Salvini sarebbe però in questo caso condizione assolutamente irrinunciabile. È la carta sulla quale Silvio Berlusconi scommette sin dalla notte della scoppola affibbiatagli dalla Lega. Non a caso, già nelle prime ore dopo il voto chi in Forza Italia conosce bene il Cavaliere assicurava che tutto dipenderà dalla disponibilità di Salvini a ritirarsi in buon ordine.
NON È FACILE CHE SUCCEDA e non è facile neppure che il Pd, pur terrorizzato com’è dal ricatto di nuove elezioni che ne accerterebbero il decesso, accetti una formula che, ancor più dell’accordo con Luigi Di Maio, si limiterebbe a posticipare la pena capitale.
Le possibilità di dar vita a una maggioranza politica non sono proprio inesistenti. Ma quasi sì.
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