Matisse: da Algeri a Tahiti, la pittura è il paese che gli somiglia
A Basilea, Fondazione Beyeler, "Matisse – Invitation au voyage", a cura di Raphaël Bouvier Nel segno di Baudelaire ("Invitation au voyage"), la mostra descrive i tornanti formali dell’opera di Matisse in base ai suoi viaggi: viaggi di un abitudinario, che agivano anche a distanza di anni
A Basilea, Fondazione Beyeler, "Matisse – Invitation au voyage", a cura di Raphaël Bouvier Nel segno di Baudelaire ("Invitation au voyage"), la mostra descrive i tornanti formali dell’opera di Matisse in base ai suoi viaggi: viaggi di un abitudinario, che agivano anche a distanza di anni
«Quel che sogno è un’arte fatta di equilibrio, di purezza, di tranquillità, che non abbia niente di inquietante o allarmante (…) un calmante cerebrale». Questa la citazione con la quale si chiude la mostra Matisse – Invitation au voyage, a cura di Raphaël Bouvier, alla Fondazione Beyeler di Basilea fino al 26 gennaio. Tranquillità, lontani dall’inquietudine, dimentichi di ogni preoccupazione… mi spingo fino al punto di dire che in questi tempi bui è la mostra ideale da vedere. Uno spunto felice, quello di ripercorrere tutto l’arco dell’opera di Matisse partendo dai suoi viaggi, perché dai suoi viaggi ricavava, senza neppure immaginarlo fino a rientro avvenuto, idee nuove, fondamentali nel suo lavoro. Le peintre du bonheur, definizione non errata ma un po’ da slogan promozionale; una leggerezza che però improvvisamente si appesantisce quando ci troviamo di fronte a quell’ampio spazio nero, sul fondo, dietro la Porte-fenêtre à Collioure, presagio infausto. Unica eccezione; data: 1914! Non è di sicuro lo stesso nero che contorna, sensuale, gli occhi, il viso delle sue modelle, le forme delle sue odalische, gli oggetti collezionati carichi di motivi ornamentali che provenivano dall’Oriente.
Ma il cuore della mostra rimane nascosto, dietro le quinte di una delle ultime sale. Ci si siede di fronte alla vetrata che dà sull’enorme, spiritosa scultura-lepre di Thomas Schütte, per leggere le tre strofe del poema di Baudelaire, L’invitation au voyage: «Mon enfant, ma soeur,/ songe à la douceur/ d’aller vivre ensemble!/ Aimer à loisir,/ aimer et mourir/ Au pays qui te ressemble!». Sembrano procedere all’unisono l’arte di Matisse e la poesia di Baudelaire. E si sa, Matisse è stato per tutta la vita un ammiratore della poesia baudelairiana. Non è certo un caso se una delle sue prime composizioni (1904) già al di là delle prove formative – ma non ben riuscita secondo lo stesso autore –s’intitola Luxe, calme et volupté, l’approdo invocato che, come un ritornello, chiude ciascuna delle tre strofe dell’Invitation; e se nel 1947, a pochi anni dalla morte, dà alle stampe le illustrazioni che accompagnano l’edizione di Les Fleurs du mal voluta dall’editore e collezionista Tériade.
Un’iniziativa, questa, che segue con tale trasporto da non accontentarsi dell’immagine accanto ai versi ma da volerla in sintonia con le iniziali della poesia da lui stesso disegnate. Ne usciranno caratteri maiuscoli che valgono un sogno. Nel suo bel saggio, Robert Kopp fornisce tanti indizi ed elementi per capire come, al pari di Mallarmé o di Valéry, Matisse non interpretasse il poeta nel senso di cantore della decadenza, al contrario lo sentisse come un classico moderno: «Mi hai dato del fango e io ne ho fatto dell’oro», conclude Kopp citando proprio Baudelaire.
I due poli della mostra sono il viaggio e il lavoro nell’atelier; direi il viaggio reale e il viaggio mentale. Matisse aveva la capacità di assimilare ciò che lo incuriosiva e lo affascinava per poi riportarlo sulla tela, anche tanti anni dopo (Océanie, le ciel e Océanie, la mer), con lucidità, chiarezza e sintesi di idee in tutta la sua bellezza. Non si considerava un viaggiatore, al contrario sosteneva di essere un abitudinario («vado in atelier alle 8, una pausa alle 12, riprendo alle 14 e finisco alle 18»), ma sentiva l’esigenza – e ciò gli capitava spesso – di uno stacco dalla routine.
Sta già tutto nel racconto del suo viaggio a Tahiti. Parte nel 1930, a 60 anni, stimolato dall’idea di sapere come sono spazio e luce nell’altro emisfero. Non è alla ricerca, come si dice in prefazione al catalogo, della «luce perfetta»; semplicemente, sono le sue parole, «di una luce e uno spazio differenti». Ebbene, in mezzo a una natura sontuosa, a un cielo eternamente blu, prova una noia infinita: «Laggiù il tempo è bello dall’alba alla sera… immutabile e stancante». Poi, poco prima di tornare, a domanda risponde: «vorrei tanto essere già a casa!». Rimane invece colpito dalla luce e dallo spazio che scopre tra i grattacieli di New York. Durante tutto il tempo trascorso a Tahiti è con la mente a un dipinto lasciato incompiuto a Nizza, per il quale troverà la soluzione solo mesi dopo al rientro dagli Stati Uniti. Un processo mentale di cui parla nelle interviste e definisce «lo sdoppiamento della vita del mio cervello». Insomma, Matisse non ha l’indole del pittore che si infiamma su un motivo scovato durante un viaggio, riportandone di getto le suggestioni sulla tela. Quello è il genere di cose – sostiene – per «caratteri artistici non ancora formati».
Eppure i viaggi segnano tappe fondamentali nel suo percorso; fondamentali, ma che necessitano comunque di un breve preambolo. C’è da chiedersi prima: dove comincia la straordinaria, felicissima avventura matissiana? Sarebbe potuta iniziare solo da un retroterra ideale: dalla Parigi del primo Novecento. Bastano questi pochi aneddoti per capire molte cose evitando tanti discorsi. Un pomeriggio arriva con una maschera africana in casa Stein e lì incontra Picasso che rimane contagiato dal suo entusiasmo; vede il primo quadro cubista dell’amico Braque e ne rimane profondamente impressionato; lavorando a fianco di Derain scopre il colore e in un amen si libera di un soffocante passato artistico. «Era un’epoca in cui non ci sentivamo costretti in uniformi, e quel che c’era d’audace e nuovo nell’opera di un amico apparteneva subito a tutti… Era un tempo di cosmogonia artistica». Nella rassegna basilese le tappe vengono scandite di sala in sala: il viaggio nel sud della Francia, a Collioure nel 1905, per liberarsi di un’opprimente eredità con «tre macchie di colore»; la scoperta dell’Oriente, prima ad Algeri nel 1906, poi in Marocco nel 1912, momento di svolta. L’arte e l’architettura islamica con il loro carico di ornamenti significano lo stacco definitivo dal fauvismo (Tangier), e finalmente, scrive, «attraverso di esse le mie sensazioni hanno preso forma».
Ma prima ancora, nel 1907, il viaggio in Italia e la folgorazione davanti a Giotto nella Cappella degli Scrovegni. È un momento decisivo per Matisse («Giotto è all’apice dei miei desideri»); una rivelazione che si traduce in una semplificazione e rarefazione sia dello spazio, sia del colore, comportando plasticità e forza espressiva maggiori nelle posture e nelle espressioni delle figure, come documentano bene la scultura Deux femmes, un equivalente del Bacio di Giuda della cappella padovana, o Baigneuses à la tortue, o ancora il celeberrimo, purtroppo non in mostra, La musique di San Pietroburgo. Il viaggio in Spagna, in Andalusia, è l’occasione per ammirare la pittura di El Greco, di coglierne la spiritualità che va oltre la sensualità di Velázquez («si può richiedere dalla pittura più profonda che tocchi lo spirito quanto i sensi»), mentre grazie a uno dei suoi maggiori collezionisti, Shchukin, si reca nel 1910 a Mosca, metropoli che gli appare «come un immenso villaggio asiatico».
E intanto da ogni viaggio se ne torna con ceramiche, tappeti, vasi e tanto altro, creando nell’atelier sfondi e ambienti per la sua pittura, per le sue odalische, per i suoi interni o per le sue nature morte. È il momento del ripensamento, del viaggio dell’immaginazione portato avanti con l’ostinazione di chi è alla ricerca, sempre perfettibile, di un’armonia, di un’unione giusta delle parti nel tutto. Il motivo della finestra aperta, che in più momenti osserviamo in mostra, è il legame tra viaggio e atelier. Incontentabile, Matisse lavora sull’opera dipingendola, correggendola e dipingendola di nuovo, più volte, come nel caso – documentato – del Grand nu couché. I «pentimenti», come nel potente dipinto Baigneuse. Cavalière, o nell’Italienne, sono lasciati lì, visibili, forse involontariamente a testimoniare il faticoso raggiungimento di qualcosa simile a quello che andava cercando: la massima armonia (forma e colore).
Che la mostra si presenti estremamente curata sotto ogni aspetto lo si intuisce dalla sequenza ben scandita delle sculture. Matisse, al pari di tre o quattro altri pittori, è stato un grande innovatore anche nel campo della scultura (un consiglio: si giri attorno a La serpentine). Il suo modo di vivere l’arte è totale, e tutto converge negli splendidi papiers collés, finale con sintesi disegno-colore-scultura.
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