Visioni

Matilde Davoli, talento dietro la consolle

Matilde DavoliMatilde Davoli

Musica Chitarrista e voce in band come Studiodavoli e Girl with the Gun, un diploma al Sae Institute di Milano in ingegneria del suono e cinque anni di esperienza a Londra, oggi ha un progetto solista, ma soprattutto lavora come produttrice e fonica. Tra le poche in Italia

Pubblicato circa un mese faEdizione del 19 ottobre 2024

Chitarrista e voce in band come Studiodavoli e Girl with the Gun, un diploma al Sae Institute di Milano in ingegneria del suono e cinque anni di esperienza a Londra, Matilde Davoli oggi ha un progetto solista, ma soprattutto lavora come produttrice e fonica al Sudestudio di Lecce: una fra le pochissime a fare questo mestiere.

Secondo una ricerca dell’Annenberg School di Los Angeles condotta sulle classifiche di fine anno di Billboard dal 2012 al 2022 – ricerca che si può considerare ancora piuttosto attuale e traslare sull’Italia arrotondando facilmente per difetto, il mercato della musica più ascoltata negli Stati uniti mostra una situazione di enorme gender gap.

Le cantanti costituiscono il 21,8% del totale, le autrici il 12,7% e le produttrici solo il 2,8%, contro il 97,2% dei produttori.

Tutto questo considerando che non c’è stato alcun aumento significativo nel corso dei dieci anni. Matilde Davoli, dunque, rappresenta un piccolo faro, forse inconsapevole, per la musica italiana, e per le sue aspiranti produttrici e foniche.

«Quando frequentai il Sae Institute ero l’unica ragazza» commenta. «Da una parte, questa cosa mi ha sempre fatto sentire in qualche modo speciale, diversa. Dall’altro, non mi sono mai soffermata troppo a pensarci. Personalmente non ho avuto grandi difficoltà in questo senso, forse perché il mio percorso è stato indipendente. Lo studio dove lavoro è di una persona, Stefano Manca, con cui sono amica da venticinque anni».

IN PIU’ di un’occasione, però, la questione si è presentata. «Mi succede qualche volta che chi viene da noi per registrare mi tratti come l’ultima assistente arrivata, come se non capissi niente, quando io lì dentro sono il fonico» racconta Davoli. «Ma, mi dispiace dirlo, succede con le vecchie generazioni, con persone da una certa età in su. Con i giovani, mai. Anzi, per loro il fatto che sia una ragazza è uno stimolo in più, è fico. Questa, poi, è la mia esperienza personale, che appunto è indipendente. Non sono mai stata in un ambiente di lavoro al soldo di qualcun altro».

Come produttrice, Matilde Davoli si può ascoltare in vari album della scena indipendente, quelli per esempio di Flame Parade, Season e Giorgio Tuma, e ha uno stile personale nell’uso dei sintetizzatori, che, ruvidi, lasciano spazio alla morbidezza degli altri strumenti, a voci a volte effettate e a volte limpide e calde.

È un suono che trova un apice naturale nel lavoro da solista, concentrato in due bellissimi album: I’m Calling You From My Dreams del 2015 e Home del 2021, entrambi usciti per l’etichetta salentina Loyal to Your Dreams.

«Mio padre è molto appassionato di musica, un vero audiofilo, e io sono cresciuta ascoltando classica e jazz, oltre ai grandi nomi della musica internazionale» racconta la produttrice. «Quando ho cominciato a fare i miei ascolti, mi sono avvicinata ad altri mondi: Blonde Redhead, Portishead, Stereolab, tutto quell’indie underground… poi ho scoperto il grandissimo e meraviglioso mondo delle colonne sonore italiane anni ‘70».

MENTRE I’m Calling You From My Dreams è stato scritto a Londra, Home, che ha canzoni in italiano e in inglese, racconta della decisione di tornare a Lecce. «È stata una decisione un po’ pragmatica, un po’ sentimentale» spiega, «perché mi piaceva l’idea tornare a casa e aiutare il posto dove sono nata e cresciuta a emanciparsi. Poi sono molto fortunata, perché Lecce è bellissima».

Cosa manca, allora, all’Italia che i paesi anglosassoni hanno?

«Si respira un’aria totalmente diversa, anche nella fruizione della musica» racconta Matilde Davoli, che a maggio si è esibita in concerto a New York per volere del bassista dei Beirut, Paul Collins, conosciuto durante le registrazioni di Gallipoli al Sudestudio.

«Credo che, innanzitutto, c’entri il valore che la società dà all’arte e alla cultura. A scuola nessuno ci insegna davvero la potenza dell’arte come forma di emancipazione culturale di una nazione. Se sei una persona che lavora nel mondo dell’arte, in Italia arriva sempre la solita domanda: ‘Sì, ok, ma che lavoro fai?’. C’è un problema di investimento alla base secondo me, sia economico sia culturale».

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