«Matassa» bipartisan a Messina
Mafia Scoperto il sistema clientelare che legava i clan ad alcuni politici locali. Tra i trentacinque arresti, anche un consigliere, un ex, e l’ex presidente di una municipalizzata. Sostanziosi pacchetti di voti e migrazioni di massa dal Pd a Forza Italia, sotto la lente dell’antimafia
Mafia Scoperto il sistema clientelare che legava i clan ad alcuni politici locali. Tra i trentacinque arresti, anche un consigliere, un ex, e l’ex presidente di una municipalizzata. Sostanziosi pacchetti di voti e migrazioni di massa dal Pd a Forza Italia, sotto la lente dell’antimafia
«Finalmente abbiamo ristabilito l’equilibrio tra la provincia e la città». È sarcastico, il procuratore capo Guido Lo Forte. E per far capire meglio la portata dell’operazione che sta descrivendo, quella «Matassa» che ha portato all’emissione di trentacinque arresti, al sequestro di quattro società ed all’ennesimo calcio nei denti all’ormai derelitta politica messinese (un consigliere in carcere, un ex ai domiciliari insieme all’ex presidente di una municipalizzata), usa un’iperbole: la portata della mafia messinese ormai non è più seconda a quella barcellonese, Messina non è più, semmai lo fosse stata, la città «babba», incapace di esprimere una malavita con caratura criminale “doc”.
Come quella che le indagini della Mobile, coordinate dalla direzione distrettuale antimafia di Messina, hanno evidenziato: e cioè che i clan di Santa Lucia sopra Contesse e Camaro, in combutta con personaggi della galassia politica, «ostacolavano il libero esercizio del diritto di voto per le consultazioni elettorali regionali, politiche e comunali». Dall’ottobre del 2012 al giugno del 2013, sostengono i sostituti Liliana Todaro e Maria Pellegrino, il consigliere comunale Paolo David (oggi Forza Italia, ieri Grande Sud e l’altro ieri capogruppo del Pd in consiglio) e l’ex presidente della partecipata dal Comune Stu Tirone Giuseppe Picarella, si macchiavano del delitto di corruzione elettorale. «In particolare – scrivono gli inquirenti – mediante un diffuso e capillare sistema clientelare», procuravano voti in cambio di denaro («50 euro a voto», ha spiegato il questore Giuseppe Cucchiara), di buste della spesa, di assunzioni presso strutture sanitarie riconducibili allo stesso Picarella.
A chi venivano procurati questi voti? A Paolo David stesso, a Francantonio Genovese, deputato scarcerato da qualche mese (dopo un anno) per l’inchiesta su truffa a carico della formazione regionale e protagonista di una clamorosa migrazione dal Pd a Forza Italia (portandosi dietro una decina abbondante di consiglieri comunali), ed al cognato Franco Rinaldi, deputato regionale, anch’egli imputato nello scandalo formazione e pure lui fresco forzista dopo una carriera politica da Democratico. Rinaldi e Genovese nell’inchiesta non compaiono né sono indagati, benchè, riportano gli inquirenti, destinatari di sostanziosi pacchetti di voti: il primo per il rinnovo del consiglio regionale siciliano del 28 e 29 ottobre 2012, il secondo per le politiche di febbraio 2013. Una collaudata macchina da guerra, che oltre ad assicurare l’elezione ai due allora maggiorenti dem, aveva permesso allo stesso David di sfondare il tetto delle 1500 preferenze alle amministrative di metà giugno 2013.
Chi compare nell’inchiesta è invece Pippo Capurro, per vent’anni consigliere comunale di Forza Italia/Pdl, con una leggera sbandata in direzione Margherita nel 2006. Per lui, oggi ai domiciliari, gli inquirenti ipotizzano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa «per aver contribuito, senza farne parte, alla realizzazione degli scopi e al rafforzamento dell’associazione mafiosa guidata da Carmelo Ventura, attivandosi per la risoluzione di problematiche amministrative». Anche per lui, comunque, la Procura immagina il risvolto politico. Capurro infatti, dicono gli inquirenti, «accettava la promessa di Ventura di procurare voti in cambio di denaro».
Che quadro ne esce fuori? Due anni d’indagini, ha spiegato Guido Lo Forte, hanno disegnato una mafia dalla «conformazione unitaria non subordinata a nessuno, né mafia barcellonese né cosa nostra catanese, né ‘ndrangheta calabrese». A Santa Lucia sopra Contesse, storicamente terreno elettivo di Giacomo Spartà, boss attualmente detenuto, a portarne avanti regno ed affari erano i suoi uomini di fiducia Gaetano Nostro e Raimondo Messina, più gli affiliati Francesco Foti, Angelo Pernicone, Luca Siracusano, Giuseppe Cambria Scimone e Giovanni Celona. A qualche km in linea d’aria, a Camaro San Paolo, a dettare legge è Carmelo Ventura, tornato il libertà nel tardo 2011, che si avvale di Santi Ferrante, di Salvatore Pulio e di Fortunato Cirillo.
Tra le due “famiglie”, ha spiegato il dirigente della Mobile Giuseppe Anzalone, non esiste una cupola, come nella storica struttura di Cosa Nostra, ma piuttosto un patto di non belligeranza e di mutuo soccorso, l’ultima parola del quale spetta comunque a Carmelo Ventura. Un divide et impera portato avanti a colpi di estorsioni, tentati omicidi, rapine e spaccio, con il favore della politica e la complicità di imprenditori in odor di mafia. Tra le aziende sequestrate, infatti, appaiono anche cooperative sociali. Il loro ruolo? Far ottenere agli ex detenuti i benefici di legge a scopo lavorativo. In realtà, per poter continuare a delinquere indisturbati.
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