Massini: convivere con i paradossi della bomba
Scrittori di teatro Mentre infuria l’Olocausto, un gruppo di ebrei in prevalenza ungheresi lavora in America alla scissione dell’atomo: "Manhattan Project", Einaudi, la nuova drammaturgia di Stefano Massini
Scrittori di teatro Mentre infuria l’Olocausto, un gruppo di ebrei in prevalenza ungheresi lavora in America alla scissione dell’atomo: "Manhattan Project", Einaudi, la nuova drammaturgia di Stefano Massini
Nel 1810 Heinrich von Kleist annota nei Berliner Abendblätter: «Gli uomini si potrebbero dividere in due categorie: quelli che si intendono di metafore e quelli che si intendono di formule». Ma adesso, a distanza di due secoli abbondanti, il drammaturgo assume su di sé una terza categoria: colui che suscita metafore attraverso formule. È un genere al quale appartiene Stefano Massini: numerose sue opere infatti si muovono all’interno di questo paradosso, che, altresì, domina incontrastato tutta la storia della bomba atomica, dalla sua progettazione fino a quello che fu il suo nefasto impiego. Rispetto alla distruzione totale dell’umanità, si potrebbe controbattere, è di qualche utilità fare riferimento al paradosso? Non è soltanto utile, è necessario. Dal 6 e dal 9 agosto 1945 – date delle esplosioni degli ordigni di Hiroshima e Nagasaki – siamo immersi nel paradosso di essere vivi soltanto perché non vi sono stati errori nella gestione tecnologica della possibilità di auto-annientamento. Varie espressioni si sono succedute, da «catastrofe nucleare» ad «apocalisse», da ricondurre alla loro dimensione etimologica. «Apocalisse» vuol dire rivelazione ed è traslata in senso improprio nell’uso quotidiano. Kalýptein vuol dire nascondere, celare, da cui, per esempio, la dea Calipso (colei che nasconde). Aggiungendo apo– si perviene al significato opposto di svelamento.
Anche Manhattan Project, testo teatrale di Stefano Massini, ora in libreria (Einaudi «Collezione di teatro», pp. 264, € 16,00), non fa eccezione. Il primo paradosso, forse il più eclatante, è che negli stessi anni in cui Hitler mette in atto lo sterminio e la persecuzione degli ebrei, a Manhattan, sempre un gruppo di ebrei, in prevalenza ungheresi, lavora alla reazione a catena e alla scissione dell’atomo, che condurrà, in ultima analisi, all’azzeramento di ogni possibilità della prosecuzione della guerra e, poco prima, alla distruzione del potere nazista. Simbolicamente, l’ebreo apolide oggetto di sterminio si difende dalla persecuzione concependo l’ordigno nucleare.
Massini è sostanzialmente un drammaturgo a caratura civile. Il successo transoceanico da lui riscosso non è disgiunto dal fatto che le sue opere vivano sovente di aporie, le quali generano di conseguenza una drammaturgia aperta, come non mancò di notare Luca Ronconi, che mise in scena la sua opera più nota, Lehman Trilogy: «Una “drammaturgia pericolosa”, a maggior ragione quando essa è priva di intenti catechetici, si pone così com’è, e fiera del suo status di stimolo, rinuncia al fatidico “messaggio”».
Manhattan Project assomiglia a Lehman Trilogy per molti degli aspetti linguistici che Ronconi notò. Crediamo tuttavia che ci sia un’altra componente fondamentale. Una delle prime cose che colpisce alla lettura di Manhattan Project, così come a quella di Lehman Trilogy, è che la «prosa» va continuamente a capo, come fossero versi. Non che questa sia un’assoluta novità, basti pensare, uno fra tanti, a Peter Weiss. Ma in Massini il ricorso all’a capo non è meramente prosodico o musicale. La scrittura guarda soprattutto alla partitura. La struttura linguistica e formale si basa su anafora ed epifora, entrambe forme dell’enumerazione. Di conseguenza, il testo è interamente governato dalla reiterazione, che è una delle caratteristiche più comuni della poesia. Ancora una volta voglio ricordare ciò che ripeteva Giorgio Caproni, ed era quasi furente, malgrado fosse un uomo mite: «La poesia non è musicale. È musica!».
Ma l’itinerario del testo, cui segue a ogni passo un riferimento biblico, conduce verso un ulteriore paradosso: l’arma più potente mai costruita (un’arma che non è più un’arma, ma un assoluto) pone fine al conflitto più sanguinoso che l’umanità abbia conosciuto. In altre parole la bomba atomica, frutto del progresso tecnologico, rischia altresì di distruggere non solo l’umanità intera, ma pure ogni tecnica e ogni tecnologia. Lo stesso Oppenheimer, accusato, nel dopoguerra, di essere addirittura una spia sovietica, si rifiutò di prendere parte agli esperimenti sulla bomba a idrogeno. È di imminente uscita, anche in Italia, un film di Christopher Nolan dedicato a questo tema, basato sulla biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin, Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato (Garzanti, 2007).
Nell’opera di Massini è impossibile isolare l’aspetto letterario in senso lato da quello di una riflessione sulla sopravvivenza stessa della specie umana. Viene in mente Martin Heidegger, con la tecnica intesa come destino, ma anche le parole ancora più agghiaccianti di Günther Anders sulla bomba: «Anche se l’evento estremo non si dovesse mai compiere, anche se dovesse continuare a restare sospesa su di noi, senza mai scaricarsi, siamo esseri condannati a vivere all’ombra di questa ineluttabile accompagnatrice: dunque senza speranza; dunque senza progetti; dunque in un modo che non dipende più da noi».
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