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Massimo Zamboni: «Arrivederci Berlinguer! è il mio canto di ringraziamento»

Massimo Zamboni: «Arrivederci Berlinguer! è il mio canto di ringraziamento»Massimo Zamboni

Intervista Il musicista racconta il suo lavoro nel documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi, in sala l’11, 12 e 13 giugno in occasione dei quarant'anni dalla morte di Berlinguer

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 6 giugno 2024

Piazza San Giovanni, una marea umana. Garofani rossi, bandiere. Giovani operai, anziani partigiani, donne, bambini. Pugni stretti, alzati, in saluto. Centinaia di volti sconvolti, davanti al feretro per l’ultimo saluto. Nilde Iotti, Fellini, Ninetto Davoli, Saddam Hussein. L’11 giugno 1984 Enrico Berlinguer lasciò un popolo orfano. Arrivederci Berlinguer! di Michele Mellara e Alessandro Rossi, prodotto da Aamod, Pordenone Docs Fest e Cinemazero, è un accorato omaggio che quarant’anni dopo cuce insieme i materiali dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e L’addio a Enrico Berlinguer, film corale sui suoi funerali realizzato da Bertolucci, Scola e molti altri. A tenere insieme questi straordinari frammenti – comizi, interviste, ricordi personali – le musiche vibranti e oniriche di Massimo Zamboni. L’abbiamo intervistato prima dell’uscita del documentario, in sala l’11, 12 e 13 giugno.

Una scena da «Arrivederci Berlinguer!»

Non addio, ma «Arrivederci Berlinguer!»…

Questo documentario ci consegna un’idea alta di politica, di paese. Le immagini del funerale scuotono. Quella che vediamo sfilare, con numeri immensi – un milione e mezzo di persone – è l’Italia migliore. L’Italia del lavoro, dello studio, che ci crede, che voleva cambiare. Il paragone coi tempi attuali è impietoso. È bene fare questi passaggi, dall’addio a Berlinguer a questo titolo altrettanto avventuroso, quasi come ci fosse un’istanza politica, di futuro. Questo film nasconde richieste forti, attraverso volti addolorati, o «dolorosi» degli operai, volti di bambini, persone che troveremmo lontanissime dalla politica partecipata oggi. Questo colpisce. Tutte le volte che abbiamo musicato il film dal vivo, un grandissimo silenzio è sceso in sala al termine della proiezione. Molti avevano le lacrime agli occhi. Al di là della scomparsa di una grande figura come quella di Berlinguer, c’è la scomparsa di un’idea di cittadinanza, di paese, c’è qualcosa di molto grosso, e molto al di là di noi, che scompare con quell’avvenimento.

Le musiche, in un’assenza totale di parole, costruiscono una drammaturgia che innesca un processo catartico, una terapia. Questa vicenda ti riguarda da molto vicino. Come ci hai lavorato?

Sono stato onorato di questa proposta, so che è stata fatta per i CCCP, i CSI, le mie scritture, c’è un continuum che mi porta dritto a questo film. Questo documentario non richiede musica, ma partecipazione. Quando ho iniziato a guardare le immagini mi sono dovuto fermare parecchie volte per la commozione. Era veramente troppo. È stata una grande scommessa da parte della regia dedicare così tanto tempo alla musica, scegliendo di non inserire un commento politico sulla figura dell’uomo, sul ruolo del partito, ma affidarli a questo linguaggio emozionale che estrae il succo di quelle vicende. Qualsiasi altro tipo di intervento ne avrebbe diminuito la potenza. Ho costruito una sorta di drammaturgia con una dolenza iniziale facilitata dalle chitarre acustiche, per andare verso una forma più potente, con le chitarre elettriche sul finale, con una lunghissima suite che si conclude con una canzone. Pensare di mettere parole sul funerale di Berlinguer non è come fare una colonna sonora. Devi renderne conto, non solo a lui: alla sua famiglia, a chi gli è stato vicino, a quel milione e mezzo di persone che erano lì, e poi a un mondo intero. Ho pensato fosse giusto inserire parole cantate, le prime per alleviare quella sensazione insopportabile di vedere l’immagine di un leader come Berlinguer che muore su un palco. È un’immagine che non posso vedere. Abbiamo discusso con i registi, convenendo che una canzone avrebbe creato distanza tra lo spettatore e ciò che stava accadendo, rendendolo partecipe in maniera più viscerale. L’ultima canzone è un canto di ringraziamento. Si è speso, fino all’ultimo secondo, è caduto sul lavoro. Sappiamo che le parole più importanti sono quelle finali, danno conto di tutta una vita. Quando ascolti le sue ultime parole, cosa puoi dire, se non grazie?

Chi è per te Enrico Berliguer?

È stato prima di tutto il capo del mio partito, m’iscrissi alla FGCI a metà degli anni ’70. Una figura di riferimento assoluta, non solo dal punto di vista gerarchico. Il suo pensiero politico è stato importantissimo, tante volte anche in contrasto col mio. Avere 17 anni, sentir parlare di «compromesso storico», sentir parlare con molta cautela di quello che era appena accaduto in Cile: sono lezioni che, col senno di poi, considero altissime. Sentir parlare di autonomia, di conservatorismo, mescolare queste parole con la parola rivoluzione per noi era da stimolo da una parte, e di grande disappunto dall’altra, avremmo voluto rivoluzione subito, senza approfondire altri aspetti. Queste cose a 17 anni sono perdonabili. Ricordo quando fu fischiato al congresso del Partito Socialista. Veniva fischiato il paese migliore. I fatti lo hanno dimostrato: tutto ciò che è nato in quegli anni da «Craxi, Andreotti, Forlani», all’arrivo di Berlusconi, e poi, e poi, e poi. Questa catena di peggioramenti infinita, della quale siamo testimoni muti, impotenti, vede brillare sempre più una figura come Berlinguer: composta, profonda, attenta. Nel documentario vediamo quanto si spendesse nelle sezioni, in un’interminabile sequenza stringe le mani a tutti, uno per uno.

Migliaia di persone, di ogni età, provenienza, legate da un sentire comune. Oggi sembra utopia, questa realtà dei fatti viene continuamente mistificata.

C’è questo tentativo di svilire tutto quello che è stato, le lotte, i pensieri, le istanze, lo spendersi, il sacrificarsi proprio delle persone che vediamo nel documentario. Erano milioni, nessuno può nasconderlo. Avevano contro, dall’altra parte della barricata, una potenza di fuoco e una ferocia così sconfinata, così incapace di trattenersi. Abbiamo visto bombe, sui treni, nelle piazze, abbiamo visto imbrogli, truffe, spionaggio, di tutto è accaduto in questo paese, di tutto, pur di sconfiggere quelle persone. Credo che vada proprio innalzato il tono epico di quegli avvenimenti, è stato un popolo intero che ha avuto un coraggio e una passione di esistere, oggi introvabili. Tutti lo considerano sconfitto, io lo considero assolutamente vincitore. Credo vada trattato con tutti gli onori e la stima. Non c’è mai stato niente del genere, dalla Resistenza in avanti.

Penso alle immagini del documentario, i pianti disperati, la gratitudine immensa, e a quel pallone con attaccata una bandiera rossa, fatto volare nel cielo di Cavriago alla fine del tuo ultimo libro. Come finisce questa storia, «la trionferà»?

È un arrivederci, anche quello. Mentre tutti dichiarano estinta una possibilità, e i guai che ci circondano sono così grandi, sappiamo tutti che ci stiamo affossando così velocemente con le nostre mani, che avere qualcosa, che stavolta è colorato di rosso, poi magari diventa verde, o azzurro… perché no? Perché non considerare questa possibilità, l’unico appiglio che abbiamo per guardare avanti, al di là degli individualismi personali? Sia benvenuto il volo di quella bandiera rossa, in quel cielo di Cavriago del 1991, che ancora non è atterrata, che probabilmente non vedremo mai atterrare. Ma sappiamo che è lì, che gira, viaggia. E chissà.

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