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Massimo Vitali, alla giusta distanza

Massimo Vitali,  alla giusta distanza©️Massimo Vitali, Firenze Ponte Vecchio Municipale, 2016 (courtesy The Artist)

Incontro A Cortona in mostra una selezione delle sue foto in grande formato degli anni novanta

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 settembre 2023
Manuela De LeonardisCORTONA (AREZZO)

«Le mie foto sono sulla gente, non sui luoghi», afferma Massimo Vitali (Como 1944, vive e lavora a Lucca). A stimolare il racconto lasciando spazio all’ambiguità dell’immaginazione sono soprattutto i dettagli anche minimi osservati da una distanza che è fisica ed emotiva, che sia la piscina di un parco in Olanda, il raduno dei giovani al festival di musica elettronica di Torino, un picnic parigino per la Fête Nationale, il litorale di Marina di Massa. In Standing Still, in partnership con Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia, nell’ambito di More or Less 13^ edizione di Cortona On the Move (fino al 1° ottobre) viene proposta una selezione delle iconiche foto in grande formato che Vitali realizza dagli anni ‘90 in cui la teatralità del gesto comune ha il senso dell’attesa, colta con uno sguardo distaccato ma partecipe.

Da «Duple Paura 1» del ’97 fino alla più recente «Monopoli Sunrise» (2022) cogli un momento che non è mai l’apice della straordinarietà…
È l’apice dell’ordinarietà. Sono sempre affascinato dalle microstorie, dall’inutilità e dalla banalità delle nostre vite normalissime più che da quelli che a tutti i costi, anche in maniera scellerata, vogliono essere speciali.

Sembra che la distanza in cui poni il banco ottico 20×25, avvalendoti del treppiedi alto 6 metri, nel tempo si sia accorciata avvicinandoti maggiormente al soggetto…
Non necessariamente. Il mio lavoro ha delle problematiche tecniche notevoli. Intanto mettere il treppiedi smontato nel pulmino, prendere quattro persone per montarlo e trasportarlo… Ci sono difficoltà notevoli e se posso fare una foto più facilmente, non sono così rigido da dire che non la faccio perché le mie foto devono essere fatte ad una certa altezza. Cerco di ottenere il miglior risultato trovando un escamotage. Su questo sono abbastanza flessibile, non lo sono su altre come la qualità delle stampe.

In un lavoro così controllato è presente anche l’imprevisto?
L’imprevisto è poco perché fondamentalmente la gente è molto prevedibile ed io sono contentissimo che lo sia, soprattutto oggi in cui sono finite tutte le ubbie della privacy. Se vai in una spiaggia e ci sono almeno cinquanta persone che fanno foto con il telefonino, perché la tua foto no e le altre sì? La fotografia ormai è sdoganata, esiste. Per fortuna! Forse, oltre che dei telefonini, è anche un po’ merito mio che per anni ho rotto le scatole sulle spiagge (sorride).

A proposito di perfezionismo tecnico hai affermato di odiare le ombre…
Sì. Una volta, poi, con la pellicola le ombre venivano blu scuro. Blu perché era il riflesso del cielo. Lo trovavo così irreale che cercavo di fare di tutto pur di non avere quelle ombre blu che non c’erano sulla spiaggia ma solo sulla pellicola. Su questo rimango sempre convinto.

È una questione estetica o c’è anche una componente concettuale?
Secondo me è solo concettuale perché non voglio aggiungere delle cose ad una situazione.

Negli anni ’90 sei tra i primi fotografi ad avere l’intuito di presentare la fotografia come oggetto d’arte. Tu stesso hai parlato di «sandwich di plexiglass»…
Ricordo che andai a New York con il solito tubo con sette, otto foto arrotolate. Un mio gallerista di Milano mi aveva dato un paio di nomi di gallerie. Andai alla galleria di Marianne Boesky, aprimmo le foto sul pavimento. La gallerista disse che mi comprava due foto e avremmo fatto una mostra, poi mi guardò e mi chiese come le volevo mettere. Le foto che le stavo facendo vedere valevano quanto il costo della carta, se invece le avessi rese un oggetto, allora, avremmo parlato di altre cifre.
Ero imbizzarrito perché ero vecchio stile, ma lei mi fece capire l’importanza di presentare il lavoro in una certa maniera, l’importanza della cornice, del montaggio, dell’oggettivazione della foto.

In questo tuo sguardo di natura antropologica c’è anche l’idea di catturare il momento decisivo?
No. Nelle mie foto non ci sono momenti decisivi perché qualunque momento è decisivo.

Però quel momento può veicolare il potenziale immaginifico delle storie…
Magari sono solo io ad immaginare quelle storie.

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