Massimo De Carolis, scelte politiche, fra cecità e urgenza
Le più interessanti indagini filosofiche sul presente tentano spesso di spiegare l’attualità mediante il riferimento a tratti invarianti della natura umana: facoltà di linguaggio, attitudine alla prassi, e così via. Mostrano come ciò che da sempre è proprio dell’animale umano prenda proprio ora una determinata forma, come avviene ad esempio nello sfruttamento della nostra attitudine a comunicare, su cui si fondano molti dei lavori inventati negli ultimi decenni dal mercato.
Un simile sforzo teorico percorre Convenzioni e governo del mondo (Quodlibet, pp. 240, € 20,00), l’ultimo libro di Massimo De Carolis, il quale, per comprendere le specificità del nostro tempo, scommette sul concetto di convenzione. Termine problematico, carico di implicazioni antropologiche e politiche, che viene riproposto nell’accezione di Hume nel suo Trattato sulla natura umana, dove indica «la più elementare coordinazione tra gli agenti dotati di ragione», per esempio tra «due rematori su una stessa barca: ciascuno tenderà spontaneamente a uniformarsi al ritmo dell’altro, benché nessuno dei due obbedisca a una […] costrizione esterna». In gioco è un tacito accordo basilare tra umani, una sorta di normalità anteriore alle norme, un «intreccio di spontaneità ed emulazione» in base al quale agiamo in un certo modo perché ci sentiamo spinti a farlo dalle azioni degli altri.
Un esempio che pare andare in questa direzione riguarda la lingua: se durante l’infanzia impariamo spontaneamente a parlare l’italiano e non l’inglese è perché gli altri attorno a noi usano quella lingua e non un’altra. Le convenzioni – cioè questo tipo di regolarità comportamentale – sono sempre state il presupposto di qualsiasi azione politica di governo: si può provare a orientare le condotte umane solo se ci si attende uniformità nelle azioni dei governati, una sorta di consenso spontaneo. L’ipotesi di fondo del libro è che nel mondo contemporaneo la situazione sia rovesciata: non più presupposto, le convenzioni diventerebbero oggetto delle pratiche di governo, che hanno imparato a estrarne sia potere che profitto in forme sempre più sofisticate.
Sulla scorta di Gramsci, De Carolis chiama questa nuova fase storica in cui troviamo «interregno», e aggiunge che contrariamente a quanto suggerisce il termine, «l’interregno non si è mai concluso», anzi è un vero e proprio «ordine sostitutivo». Ad averlo determinato sono una pluralità di fattori, tra cui la costante innovazione tecnologica, l’aumento di attori sulla scena politico-economica (che finiscono per confondersi tra loro), la portata mondiale dei fenomeni più peculiari del nostro tempo: ciò che con un termine trito si chiama globalizzazione. Il tempo presente è segnato da una complessità che le istituzioni moderne sono inadatte a governare e di fronte alla quale ci troviamo smarriti, privi di punti di riferimento. Un oceano di possibilità in cui siamo costretti ad annaspare senza scialuppa o salvagente. Questa nuova condizione irrompe nella scena politica con la prima guerra mondiale, vero momento di cesura che apre l’interregno, snodo traumatico ed esorbitante, che con i suoi orrori paventa una eventuale fine dell’umanità grazie alla potenza distruttiva della tecnologia.
Proprio i reduci del conflitto forniscono un esempio palmare del nuovo soggetto politico protagonista dell’ultimo secolo: non le classi in conflitto tra loro, ma la massa. Una pluralità disomogenea e disorganizzata di individui privi di forti affiliazioni ideologiche, che, in una situazione di incertezza, sente di «dover agire, senza poter avere alcuna chiara idea del senso delle proprie azioni». A fomentare le dinamiche emulative – cioè convenzionali – della massa e a orientare le «preferenze collettive» verso le «narrazioni più attraenti e non le più verosimili», agisce una «combinazione di cecità e urgenza». Meglio credere, ad esempio, di «essere stati traditi e pugnalati alle spalle dagli imboscati, piuttosto che pensare di essere stati sconfitti». In tutto ciò, la manipolazione retorica e una feroce caccia al consenso, come si vede bene oggi, si fanno sempre più spietate.
Il paradosso è che questa situazione di instabilità viene innescata dalle istituzioni che dovrebbero frenarla – cioè lo Stato e il mercato – perché a contrassegnarla è un circolo vizioso nel quale maggiore è l’insicurezza, maggiore la tendenza ad affidarsi a qualcuno. Chi detiene il potere politico ed economico non ha alcun interesse a disinnescare la miccia, dal momento che proprio grazie all’influenzabilità della massa può massimizzare profitto e consenso.
È una dinamica ben visibile nel cosiddetto populismo, con risvolti anche pericolosamente antisociali, come testimonia, per esempio, il recente assalto al Campidoglio da parte dei seguaci di Trump. Motivo per cui De Carolis auspica una trasformazione interna al nuovo soggetto politico: la massa deve diventare «anti-massa», far cioè emergere istanze di «libertà e di autogoverno», che sono state spesso, del resto, presenti nei movimenti politici dell’ultimo secolo (per esempio negli anni Sessanta e Settanta). Solo un capovolgimento del genere sarà all’altezza della più grande sfida dei nostri tempi: un nuovo ordine istituzionale, che metta al centro due figure pericolosamente a rischio: l’«Umanità» e la «Terra». Sarà il tempo a dirci se questo auspicio sia stato un wishful thinking o una lucida previsione.
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