Ci si va sempre con diffidenza, alle mostre organizzate in occasione dei centenari: per il sospetto che siano state dettate da un certo bisogno identitario, con la superficialità e la retorica ventosa che ne derivano; per il fatto che sono spesso il pretesto per allestimenti ‘innovativi’, ma privi di contenuti e utili, semmai, a dare visibilità a qualche attillato personaggio; un po’, anche, perché sembra che il loro valore risieda più nelle cifre dei secoli da celebrare e dell’indotto, anziché nei risvolti dei fatti storici, culturali ed etici.

Ecco, una diffidenza del genere muore sul nascere alla mostra Empoli 1424. Masolino e gli albori del Rinascimento, allestita fino al 7 luglio nel Museo della Collegiata di Sant’Andrea e, soprattutto, nella Chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani. Mostra ispirata non da una delle solite ricorrenze anagrafiche quanto dal 600º anniversario di un pagamento al maestro originario di Panicale: il 2 novembre 1424 veniva infatti saldata a Masolino la decorazione della cappella della Compagnia della Croce, la prima a destra entrando proprio in Santo Stefano, che è una delle sue prime opere conosciute.

Per disgrazia, delle Storie della Vera Croce che foderavano il sacello non rimangono oggi che le evanescenti sinopie e qualche mezza figura accigliata nel sottarco, rendendo desolante la contemplazione. Consci dello sconforto, i curatori (Silvia De Luca, Andrea De Marchi e Francesco Suppa) hanno pensato bene di fornire una buona illuminazione di questi magri resti e una ricostruzione virtuale dell’iconografia adottata nel ciclo, invitando a sostare più a lungo nel transetto destro della chiesa, dove si preservano altri affreschi di Masolino, risalenti anch’essi a quel 1424: l’ambrata lunetta con la Madonna col Bambino e due angeli e una pila di teste femminili più pallide e spensierate, ora identificate come l’avanzo di una scena rara del culto mariano, la Leggenda della Candelora.

L’allestimento in Santo Stefano – grosse pareti di blocchi grigio scuro, di un tono vagamente Armani’s style, che dialoga con le architetture in pietra serena dell’edificio – dà però giustamente risalto all’opera empolese più famosa di Masolino, omaggiata in passato anche dal videoartist Bill Viola (Emergence, 2002): il Compianto su Cristo morto del Museo della Collegiata, che ci accoglie e ci chiama dal fondo della prospettiva espositiva.

Sono queste, dunque, le tracce dell’attività dell’artista a Empoli che hanno offerto il destro per quella che viene rivendicata come la prima vera esposizione monografica dedicata al pittore. Almeno per quanto è stato possibile fare, poiché l’intento ha dovuto scontrarsi col fatto che larga parte delle opere di Masolino sono affreschi, perciò inamovibili o quasi da Firenze (Cappella Brancacci al Carmine), Roma (Cappella di Santa Caterina nella Basilica di San Clemente), Todi (Chiesa di San Fortunato) e da Castiglione Olona. Fondamentali i prestiti ottenuti per ovviare così al problema, da musei toscani e da quelli esteri: dalle Storie di San Giuliano del Musée Ingres Bourdelle di Montauban alla Dormitio Virginis e alla Crocifissione della Pinacoteca Vaticana, dal San Giuliano del Museo Diocesano di Firenze alla suadente Madonna dell’umiltà degli Uffizi, dalla sinopia del Pasce oves meas del Carmine alla copia della Vocazione dei santi Pietro e Andrea dell’Opera del Duomo di Santa Maria del Fiore – entrambe presenti a rievocare l’impresa della Brancacci.

Tutto intorno, gli ori fulgidi, i colori aciduli e gli ammicchi del Maestro della Madonna Strauss, di Gherardo Starnina, di Lorenzo Monaco, di Giovanni Toscani, di Bicci di Lorenzo, di Francesco d’Antonio, del Maestro del 1419 e del Beato Angelico, che hanno il compito d’illustrare il clima in cui Masolino si trovò a operare, così come i suoi antesignani, maestri, seguaci, allievi.

È sicuramente questo l’aspetto più riuscito della mostra, quello cioè di aver ricostruito, attraverso chi contribuì a modellarlo, il volto artistico di una città che, nei primi decenni del XV secolo, tradisce la smania di emulare il gusto imperante nella Firenze di allora, dove furono appunto reclutati tutti gli artisti qui esposti. Un salto al Museo del Collegiata – l’altra sede – si rende perciò necessario, poiché alla collezione permanente sono stati affiancati altri dipinti conservati nelle chiese del circondario, abitualmente poco o punto visibili. Vi è poi un educato catalogo, che dà conto di nuovi studi svolti per l’occasione, ricchi di precisazioni e correzioni a quanto si conosceva in precedenza, nonché di succulente proposte e novità.

Spiace, tuttavia, non ammirare la Madonna in terracotta di Donatello della chiesetta di San Martino a Pontorme (poco distante ma quasi sempre chiusa): un capolavoro giovanile dello scultore che avrebbe aggiunto un bell’acuto allo spartito della mostra. Tanto più che da quella chiesa provengono due pannelli di Toscani esposti a Santo Stefano e che forse, in origine, la incorniciavano. Chiacchieratissimo il nuovo ‘Masolino’: un San Francesco di collezione privata, titubante e scottato, appositamente confrontato con l’umanità nivea e scaltra della Madonna degli Uffizi. Chissà se Masolino la spunterà su Beato Angelico, ai cui nebulosi esordi fu riferito in passato il dipinto: certo è che da quello sguardo sbilenco traluce l’intuizione di una verità nuova, da esplorare lentamente, mentre il Gesù della tavola fiorentina ci scruta saputo, come chi ha già visto abbastanza.

Una sottile differenza, questa, che fa venir voglia di tornare sui ponteggi del Carmine e allo scontro generazionale che vi si consumò poco dopo il 1424, così ben ricostruito da Roberto Longhi nei suoi Fatti di Masolino e Masaccio (1940). Vi si affrontarono due umanità opposte, inconciliabili, plasmate di «cera e di miele» quella di Masolino, «di fortemente volere e di fortemente agire» quella di Masaccio. Inevitabile, allora, domandarsi cosa rievochi in noi la parola ‘rinascimento’ e se corrisponda effettivamente a figure cremose e a stoffe rutilanti, che scivolano lente sulle pareti delle cappelle e sull’oro dei polittici; oppure a qualcos’altro.

Alla fine, Empoli 1424 appare anche come un regalo che la città ha voluto fare a sé stessa. Il titolo rintocca d’altronde come una chiamata, quasi la cittadina si riconosca in quella di sei secoli prima, con la medesima voglia di rinascere. Ci auguriamo che riesca, senza però inciampare nell’idea della Toscana da cartolina e dei wine tours; insomma, che stavolta non segua l’esempio della Firenze di oggi.