MIsha Maslennikov (Oxfam)
MIsha Maslennikov (Oxfam)

Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam, il vostro rapporto «Disuguitalia» ha certificato come le recenti crisi abbiano aumentato le disuguaglianze sociali. Perché cresce l’astensione e si vota chi è meno attento a questo gigantesco problema?
Perché crescono la delusione per il peggioramento delle proprie condizioni di vita e il senso di abbandono da parte di chi avrebbe dovuto – ma non lo ha fatto – prendersi carico dei problemi dei cittadini. E cresce l’insoddisfazione delle persone e dei territori che «non contano». Ciò alimenta l’astensione e l’appeal di proposte politiche populiste ed estreme. E inoltre lascia spazio agli imprenditori politici della paura. La speranza è purtroppo mal riposta. Il nuovo corso politico iniziato con il governo Meloni sta premiando contesti e individui già avvantaggiati e non si caratterizza per una lotta tenace contro povertà e disuguaglianze.

Avete lanciato la raccolta firme #LaGrandeRicchezza a supporto dell’Iniziativa dei Cittadini Europei (Ice) per un’imposta progressiva sui grandi patrimoni. È sicuro che questa Europa che a giugno rischia di andare più a destra voglia e sia in grado di crearne una?
Una domanda simile ci veniva rivolta in passato, quando insistevamo sulla necessità di contrastare le pratiche elusive delle grandi corporation, assicurando un livello adeguato di tassazione dei colossi transnazionali. Quelle richieste hanno trovato una risposta istituzionale: oltre 140 paesi si sono accordati sulla Global minimum tax. Se i governi sono riusciti a raggiungere un accordo su questa imposta, non trovo utopistico un avanzamento sulla tassazione dei grandi patrimoni. Serve a rafforzare la sostenibilità dei sistemi impositivi e a riconciliare la globalizzazione con una maggiore giustizia fiscale.

Il governo Meloni ha finanziato il taglio delle tasse (il «cuneo fiscale») facendo più deficit nella legge di bilancio. Qual è la razionalità economica di una misura del genere?
Introdotta nel 2022 in risposta alle pressioni inflazionistiche, la misura ha fornito un sostegno ai lavoratori più vulnerabili e con redditi medio-bassi. Ha tuttavia comportato anche trappole della povertà in corrispondenza delle due soglie di reddito entro cui è definita. Rischia di disincentivare il lavoro e incoraggiare a dichiarare il reddito entro le soglie previste dallo sgravio. Può anche impattare negativamente sugli accordi di rinnovo contrattuale e ha un costo elevato per le finanze pubbliche. Bisogna valutare attentamente se le condizioni che hanno reso necessaria la decontribuzione sussistano ancora o meno. Qualora le si attribuisse invece l’obiettivo di supportare i salari più bassi, andrebbero più opportunamente considerati strumenti meno distorsivi.

La crisi del caro-vita è stata affrontata efficacemente?
Le politiche contro l’impennata dei prezzi si sono concentrate su misure compensative a breve termine per imprese e famiglie. Per le famiglie è stata prestata attenzione ai nuclei più fragili la cui vulnerabilità tuttavia persiste. Per gli operatori economici i crediti di imposta hanno sostenuto le imprese energivore, ma senza previsioni di piani di investimento o ristrutturazioni in grado di aumentarne l’efficienza energetica e senza alcuna condizionalità per la sostenibilità ambientale o per le relazioni industriali. Gli aiuti non sono stati vincolati ai rinnovi contrattuali per favorire il recupero della perdita d’acquisto dei salari.

Il lavoro povero dilaga. Quanto hanno pesato le «riforme» delle politiche del lavoro dagli anni Novanta in Italia?
La diffusione del lavoro povero e le crescenti disuguaglianze retributive sono senza dubbio ascrivibili alle politiche di flessibilizzazione degli ultimi 25 anni che hanno portato a una progressiva riduzione dei vincoli per i datori di lavoro ad assumere lavoratori con contratti atipici. Sull’aumento del lavoro povero pesano anche la deindustrializzazione di lungo corso del paese, la scarsa propensione delle piccole e medie imprese a investire sui lavoratori e la competizione basata sulla compressione del costo del lavoro.

Il governo Meloni ha intenzione di cambiare rotta?
Tutt’altro. L’assenza di una chiara politica industriale, orientata alla creazione di buoni posti di lavoro, è una rinuncia a contrastare l’indebolimento dell’economia e a riqualificare lo sviluppo del paese in campo tecnologico e ambientale. L’ulteriore liberalizzazione dei contratti a termine e del lavoro occasionale rischia di rafforzare la trappola della precarietà. L’opposizione al salario minimo legale è stata una scelta emblematica. C’è un profondo disinteresse a tutelare i lavoratori meno protetti, impiegati in settori in cui la forza dei sindacati è minima.

Come spiega il taglio del reddito di cittadinanza a 500 mila persone?
È il risultato dell’approccio categoriale del governo. Non basta più essere indigenti per ottenere un supporto continuativo, ma si dovrà anche ricadere in una categoria ritenuta eccezionalmente svantaggiata. Chi non vi afferisce, anche se in condizioni di bisogno, dovrà cavarsela quasi da solo. È un povero abile che non ha più scusanti per non accedere al mercato del lavoro. Non importa che sia lontano da esso da tempo, non abbia competenze spendibili o che le opportunità di impiego siano carenti.