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Mascherine, il plasticidio dell’«usa e getta»

Inchiesta Tra emissioni di C02 e materiali non biodegradabili, l’impatto delle protezioni anti-Covid è devastante come quello delle bottiglie di plastica

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 1 luglio 2021

Agosto 2020, una foto da Beirut. Nel suo appartamento devastato dalla terribile esplosione nel porto libanese, un’anziana donna suona il pianoforte indossando la mascherina. È la più surreale rappresentazione del «primo talismano usa e getta della storia» (la definizione è di Wu Ming). Mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale (Dpi) sono diventati onnipresenti al tempo di Covid-19. Non era mai successo per ragioni sanitarie: anche presso alcune popolazioni asiatiche, salvo in giornate di grande inquinamento, la mascherina veniva indossata solo da chi aveva sintomi. Non sono l’unico usa e getta legato al virus, ma hanno sostituito lo shopper di plastica (e la Coca Cola) come oggetto unificante dalle Alpi alle Piramidi.

«SI CONTINUERANNO A USARE con questa pandemia e probabilmente diventeranno una risposta per le epidemie future» leggiamo sulla rivista Nature (nell’articolo What the science says about lifting mask mandates), che differenzia fra aria aperta e ambienti chiusi, magari angusti. Spiegano politici e consulenti inglesi che «protezione delle vie aeree e distanziamento sociale ci accompagneranno per anni». Mentre il National Institute for Occupation Safety and Health (Niosh) del governo statunitense ha lanciato il Mask Innovation Challenge, appetitoso concorso per l’innovazione con lo scopo di «ideare le mascherine di domani».

LASCIAMO DA PARTE IL DIBATTITO sull’efficacia di questi dispositivi, e quello sui famosi asintomatici (a proposito: lo studio A study on infectivity of asymptomatic SARS-CoV-2 carriers pubblicato su Respiratory medicine ha controllato 445 persone esposte in modo ravvicinato a un asintomatico risultato positivo al virus Sars-CoV-2: nessuno si è infettato).

L’IMPATTO DEL CICLO DI VITA di una mascherina usa e getta è stato stimato da un recente studio pubblicato su Science direct. Dalla culla alla tomba, ovvero materie prime, taglio e cucito, disinfezione, imballaggio, trasporti, per le mascherine monouso composte di poliuretano, poliestere, polipropilene, alluminio si calcolano in 580 grammi le emissioni di gas serra CO2 equivalente – mentre le riutilizzabili senza filtri sono l’opzione ecologicamente più accettabile. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, nel documento Impatto di Covid-19 sulla plastica monouso nell’ambiente europeo (22 giugno 2021), l’aumento della produzione di mascherine usa e getta ha generato emissioni di gas serra fra 14 e 33,5 tonnellate di CO2 equivalente per tonnellata di prodotto. Su questo incide anche la scelta di molti paesi di destinare i dispositivi monouso dismessi all’incenerimento o alla discarica.

CIFRE STRATOSFERICHE, visto che lo studio Covid-19 Pandemic repercussions on the use and mismanagement of plastics pubblicato su Environmental Science and Technology della American Chemical Society coordinato da Joana Prata dà conto di una stima mondiale certamente eccessiva, calibrata sul livello di consumi occidentali dei Ppe (in inglese Personal protective equipment): ogni mese 129 miliardi di mascherine e 65 miliardi di paia di guanti. Eccessivo, visto che molte persone usano mascherine di tessuto o utilizzano per vari giorni quelle monouso; anche i guanti sono sempre meno diffusi fuori dall’ambiente sanitario, malgrado le informazioni depistanti susseguitesi per mesi; ad esempio, anche dopo che la stessa Oms aveva sconsigliato l’uso dei guanti nei luoghi pubblici, compresi i supermercati, gli annunci di Trenitalia nei vagoni invitavano a «munirsi di guanti», insieme all’obbligo di mascherine. Solo dopo ripetute proteste, o perché era giunto il momento, il suggerimento è stato revocato.

FLEURS DU MAL. ANCHE A RIDIMENSIONARE i numeri, la dimensione del problema ambientale posto dai dispositivi di protezione è analoga a quella delle bottiglie di plastica (43 miliardi al mese nel mondo). Basta che l’1% del totale di questi miliardi sia disperso nell’ambiente per provocare gravi impatti ambientali. Quanti fleurs du mal azzurri e bianchi troviamo sui cigli anche di strade di provincia, fra neglette erbe selvatiche e i rifiuti randagi di sempre, lattine, bottiglie, imballaggi assortiti? Del resto la ricerca Billions of Castoff Face Masks: Covid Debris Threatens a Global Ecological Disaster pubblicata su Environmental Challenges, diretta dalla Scuola di ingegneria dell’università di Melbourne, ha trovato, intervistando persone in diversi paesi, che un 10% brucia le mascherine usate e il 19% le getta tranquillamente nell’ambiente.

E LA’ I MATERIALI CHE LA COMPONGONO rimangono a inquinare per centinaia di anni. Ocean Asia, organizzazione per la tutela dei mari, ha stimato che nel 2020 siano finiti in mare 1,5 miliardi di mascherine. In India già l’anno scorso un sub ha trovato in poche settimane 17 tonnellate di rifiuti in acqua destinate a diventare micro-plastiche disperse; l’India aveva aderito alla Clean Seas Campaign (Campagna mari puliti) ma con la pandemia tutto è stato messo fra parentesi.

SECONDO UNA RICERCA CONDOTTA da un team dell’università Milano Bicocca, una mascherina chirurgica in mare rilascia fino a 173 mila microfibre di poche decine di micron al giorno. Gli effetti sugli organismi marini sono ancora da determinare. Il documento Face masks and the environment: Preventing the next plastic problem realizzato da ricercatori dell’università di Southern Denmark e pubblicato su Frontiers of Environmental Science & Engineering denuncia che «ogni minuto di ogni giorno si gettano via 3 milioni di mascherine. Molte finiscono negli ecosistemi, frammentandosi in micro e nanoplastiche». L’effetto macroscopico sono gli uccelli che rischiano di finire strangolati, ma non è certo con la campagna «taglia gli elastici» che si risolve la partita.

IL RECENTE RAPPORTO DEL WWF ITALIA. La lotta al Covid frena quella all’inquinamento da plastica dà conto di un arretramento nella lotta ai rifiuti di plastica, proprio per l’enorme problema delle mascherine, «impossibili da riciclare perché costituite da plastica composita e potenzialmente infette (…) inquinano gli ecosistemi marini e terrestri. (…). In acqua tendono a galleggiare ma le più pesanti finiscono per essere ingerite da pesci, tartarughe, mammiferi marini e uccelli. Dopo poche settimane nell’ambente si frammentano in microfibre che possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche tossiche e microrganismi patogeni». Ci sono rischi possibili anche per la salute umana, e non solo a causa della maggiore difficoltà di respirazione (vedi articolo a fianco): il governo canadese a fine marzo ha richiamato milioni di mascherine che contengono il grafene, nanomateriale con proprietà antivirali. La richiesta era arrivata da alcune Ong che le avevano dichiarate potenzialmente tossiche.

IN ITALIA, IL SISTEMA NAZIONALE per la protezione dell’ambiente (Snpa) ha stabilito (in Emergenza Covid-19: indicazioni Snpa sulla gestione dei rifiuti) che guanti e mascherine – così come tutti gli altri rifiuti indifferenziati provenienti da abitazioni con positivi al virus – debbano essere inceneriti o qualora non sia possibile conferiti all’igienizzazione e poi assegnati a luoghi peculiari in discarica. Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia, federazione nazionale delle aziende operanti nei servizi pubblici, spiega: «Si tratta di quantità ingenti ma il sistema impiantistico italiano, sia pur carente e mal dislocato sul territorio, è stato in grado di gestirlo. Considerando un peso medio di 4-5 grammi stiamo parlando di 10 mila tonnellate di rifiuto al mese». E quindi? «Il problema non è tanto quantitativo, ma il peso ambientale a esse connesso: devono seguire i canali degli altri rifiuti indifferenziati, come raccomandato dall’Istituto Superiore di Sanità (incenerimento o discarica) e la questione è quindi di gestione ambientale, perché con l’incenerimento producono energia, altrimenti riempiono le discariche. Non esistono stime precise a riguardo, ma nei territori dove sono presenti impianti di incenerimento sono avviate a termodistruzione, mentre nei territori carenti di impianti vengono smaltiti in discarica. E questo è un problema, perché l’Ue ha fissato al 2035 riduzione del ricorso alla discarica al di sotto del 10% e l’Italia attualmente è al 20%, senza dimenticare che le discariche italiane hanno una vita media compresa tra i 2 e gli 8 anni prima di arrivare a saturazione».

CHE FARE DUNQUE? INTANTO EVITARE gli usa e getta il più possibile: prevenirli, non sprecarli. Lo studio Preventing masks from becoming the next plastic problem, condotto da ricercatori dell’università della Danimarca meridionale, suggerisce la scelta delle lavabili e autoprodotte di stoffa. Una sperimentazione di Altroconsumo ha trovato inoltre che le stesse mascherine chirurgiche considerate monouso sono lavabili e riutilizzabili almeno cinque volte: così si allunga il loro ciclo di vita e mantenendo intatte le caratteristiche. Inoltre nelle scuole, spiega sempre Altroconsumo «secondo il ministero dell’istruzione, è possibile indossare anche le mascherine lavabili, anche autoprodotte ma molti dirigenti scolastici permettono solo l’utilizzo delle chirurgiche». Anche l’Istituto superiore di sanità confermava: «È una scelta degli istituti, non c’è obbligo delle monouso». Così se ne vanno almeno 33 milioni di usa e getta ogni settimana. Oltre all’effetto diseducativo.

UN ALTRO IPOTETICO SPRECO È STATO L’USO all’aperto (ne parliamo in un altro articolo). Del resto, in Occidente ma non solo, il loro uso è andato oltre gli obblighi imposti dai decreti governativi, mentre si camminava all’aperto senza prolungati assembramenti, nella solitudine di un’automobile, in regioni poco colpite dal virus, in altre dal clima soffocante. Esibite come prova di altruismo, ma più spesso per conformismo, e subite per paura (del virus o/e della multa), sono invece mal digerite da una minoranza che all’aperto le vive come un’assurdità e peraltro ha verificato che a non portarle non si veniva multati. E sul lavoro? La normativa varata dal governo prevedeva fin dalla primavera 2020 i Dpi come necessari «quando il lavoro non consente di mantenere la distanza interpersonale di un metro e non siano possibili soluzioni organizzative diverse». Di fatto, l’obbligo è diventato unica soluzione. Ma almeno sono ammesse le mascherine di comunità, durevoli? Risposta dell’Istituto superiore di sanità: «Riguarda Inail e medici competenti i quali stabiliscono in base al rischio il dispositivo più adeguato, non vi è una regola generale, va fatta una valutazione lavoro per lavoro». Ma non finisce certo con guanti e mascherine. Il macrofenomeno è ben più ampio, e ha fatto fare enormi passi indietro nel cammino contro gli usa e getta.

IGIENIZZANTI UBER ALLES. Sfregarsi le mani ha assunto un altro significato. E’ ancora tutta da valutare l’impronta ecologica (oltre che sanitaria) delle sostanze igienizzanti nonché dei loro contenitori. Quanto a questi ultimi, possiamo calcolare una boccetta da 80 ml ogni due settimane a persona, alle quali si aggiungono tutti i flaconi o dispenser messi a disposizione gratuitamente da negozi, supermercati, uffici, scuole, luoghi pubblici, mezzi di trasporto, con l’esplicita richiesta di usarli spesso, anche quando incongrui.

SEMPRE TRENITALIA MARTELLA i viaggiatori con continui appelli a volume altissimo a igienizzarsi frequentemente le mani anche utilizzando gli appositi dispenser inducendo comportamenti compulsivi. Quanti miliardi di flaconi gettati al mondo? Quanti fiumi di gel? Per non dire della sanificazione massiccia e ripetuta di ogni genere di superfici. Si calcolerà mai l’impatto ambientale e sanitario dei disinfettanti irrorati, molti dei quali non certo innocui? E’ necessario che Telecom o chi per essa faccia girare in furgone addetti alla sanificazione delle cabine telefoniche stradali ormai non usate più da nessuno?

ADDIO SFUSO? TUTTO IMBALLATO e da asporto. Secondo il già citato rapporto del Wwf, con la pandemia il consumo di prodotti confezionati rispetto allo sfuso è salito notevolmente. Quasi la metà di chi preferiva lo sfuso adesso sceglie l’imballato. Tanto che Greenpeace aveva dovuto promuovere una dichiarazione firmata da oltre 100 esperti di salute pubblica di 19 paesi sull’assoluta sicurezza rappresentata dai contenitori durevoli e lavabili anche durante la pandemia da coronavirus. Destinatari dell’appello consumatori, rivenditori, aziende e politici. Spiega il già citato studio della American Chemical Society: «Le preoccupazioni sul possibile ruolo dei contenitori riutilizzabili come vettori del virus hanno contribuito a enormi passi indietro nella messa al bando delle plastiche monouso con gran gioia dell’industria. Occorrerà una valutazione dell’impatto delle plastiche dovuto alla pandemia».

SI AGGIUNGANO GLI IMBALLAGGI obbligatori degli aumentati acquisti online con la consegna a domicilio. E il monouso legato all’asporto (obbligatorio per lunghi mesi) da bar e ristoranti. Bicchieri bicchierini piatti posate cannucce. In pochi si sono portati la tazza da casa, seguendo l’esortazione lancia nata per prima dal bar Ciabot di Villarbasse (Torino).

NON DIMENTICHIAMO INOLTRE le migliaia di milioni di metri quadrati di plexiglas «parafiato» (sic) installati in uno possibile sportello o cassa o banco. Si pensi anche al costo economico miliardario per le finanze pubbliche e cittadine che questi imbarazzanti usa e getta di ogni tipo hanno comportato.

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