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Maschera, oggetto, blocco umano: Paula Modersohn-Becker

Maschera, oggetto, blocco umano: Paula Modersohn-BeckerPaula Modersoh-Becker, "Liegende Mutter mit Kind II", 1906, Brema, Paula Modersohn-Becker Museum

Paula Modersohn-Becker a Parigi, Musée d'Art Moderne Un caso isolato di primo Novecento? La pittrice di Dresda, morta giovane, anticipa in realtà motivi-cardine dell’incipiente cubismo, e dell’espressionismo

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 31 luglio 2016

Può sorprendere che Parigi, fino a oggi, non avesse ancora dedicato una mostra a Paula Modersohn-Becker. Eppure è proprio a Parigi, all’alba del Novecento, che l’artista tedesca prende coscienza, pienamente, delle sue possibilità espressive e definisce la sua maniera semplice e grande. Questo, prima del cubismo e sollecitata in particolare dalle lezioni, da una parte di Cézanne, dall’altra del sintetismo di Gauguin e dei Nabis. Fu influenzata anche, lo vedremo, dai ritratti a encausto delle mummie del Fayum, visti al Louvre.

Il ritardo parigino si spiega non tanto con lo sciovinismo francese quanto con la difficoltà, per Paula Becker, di collocarsi storicamente, avendo avuto la sfortuna, oltre che di morire giovane a 31 anni, di operare in un tempo di mezzo, quando le varie opzioni di fine Ottocento avevano già detto la loro e il sovvertimento di Picasso e di Braque non ancora la sua (Paula scompare, di un’embolia post-parto, nel 1907, l’anno delle Demoiselles d’Avignon). Un’altra possibile ragione del ritardo è l’assoluta mancanza di opere sue nelle collezioni pubbliche francesi.

Un destino «di genere»?

Può sorgere il sospetto, però, che la mostra al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, aperta fino al 21 agosto, risponda tuttora a un recupero, più che storico-critico, in chiave «grande figura solitaria del Novecento, donna», visto che segue, a qualche anno di distanza, quella dedicata, nella stessa ala del museo, alla finlandese Helene Schjerfbeck, un’artista effettivamente accostata, certe volte, a Paula Becker, oltreché per il grave isolamento delle sue figure, per un analogo destino «di genere». Ma l’impegno a ridare corpo, seppure in una forma strettamente monografica che rischia di confermare l’immagine del caso appartato e sospeso nel tempo, all’opera della pittrice di Dresda (lì era nata nel 1876), fuga ogni dubbio, e ci conduce, con l’ausilio di un ottimo catalogo, a cercare di capire in che modo Paula abbia anticipato motivi stilistici che poi diventeranno dominanti con il cubismo e con l’espressionismo.

Forse i francesi mantengono una certa riserva a riconoscere che questa donna, giunta a Parigi per la prima volta allo scoccare del 1900 (seguiranno altri tre soggiorni fino al marzo 1907), e giuntavi dall’«eremitaggio» di Worpswede, possa avere intrapreso un percorso che, con i soli appoggi procuratigli dalla sua determinazione, la conduce alle soglie della rivoluzione plastica di Picasso. Non ha tutti i torti Uwe M. Schneede a richiamare in catalogo l’effigie di Gertrude Stein realizzata da Picasso nel 1906 a proposito dell’estrema concisione perseguita da Paula Becker già al principio del secolo e pienamente realizzata con i ritratti e gli autoritratti del 1906-07. Anche nella Becker, e prima di Picasso, l’assenza di interesse psicologico e fisiognomico in favore di un’integrale risoluzione pittorica aveva portato a realizzare il volto umano in termini di maschera, con la differenza che in lei non può avere agito l’arte africana. Un altro motivo di avanguardia ante-litteram è il concetto, che la Becker giunge a intuire, dell’opera d’arte autonoma, del tableau-objet poi caro ad Apollinaire; fa una certa impressione quel che scrive nel febbraio 1903 al marito pittore Otto Modersohn: «Lo scopo è quello di far diventare le tue composizioni dei quadri».

Questa prospettiva, di radice cézanniana, implica un’insubordazione alla natura e all’occhio, e un’idea dell’opera quale costruzione soggettiva, una costruzione che, nel processo creativo della Becker, in un secondo momento deve essere però messa a verifica della realtà esterna: questa verifica, scrive, «permette al quadro di sembrare naturale». Si tratta di un ritorno operativo alla natura, dopo il predominio delle «emozioni personali»: sbaglia dunque chi vede in Paula Becker, unilateralmente, la maestra degli espressionisti tedeschi (Brücke), mettendo fra parentesi la sua ricerca di una intensificazione della realtà, di tipo pre-cubista. È vero che negli anni di apprendistato a Berlino, già sensibile alle esperienze di rottura, fu colpita dall’arte di Edvard Munch, la quale però affiora nella sua opera solo come clima spirituale, come sigla onirica, senza destabilizzarne la solidità costruttiva.

Da Berlino a Worpswede

La mostra parigina, in questo un po’ troppo parigina, glissa sulla produzione di Paula che precede il 1900: in avvio l’artista ci si presenta già formata. Ma la formazione era avvenuta in Germania: nella Berlino secessionista la Becker imparò a disegnare secondo rigidi, ma non inutili, dettami accademici (le era compagna di corso un’altra artista a lei sintonica per monumentalità di impianto figurale: Käthe Kollwitz) e poté avere un primo contatto con l’arte moderna, anche francese, nelle gallerie e collezioni private che si moltiplicavano in città. Già in questi esordi le è chiaro il suo obiettivo: un’arte «semplice» e «nobile».

Il giro di volta è a Worpswede, nella Bassa Sassonia. In questo villaggio rurale, formatosi dove erano paludi, talché «il mare che non c’è più», ha scritto Rainer Maria Rilke, sembra ancora mugghiare «tra i vecchi pini della montagna», qui Paula trova il suo ritiro: vi è attratta dalla natura aspra e dolce, «il terreno… marrone scuro, quasi nero» e le betulle, «sacerdoti vestiti di bianco» (sempre Rilke). Vi è attratta anche dalle antiche usanze di contadini poveri all’osso dell’esistenza e dal fervore spirituale della comunità di pittori che lì ha trovato stanza, fra i quali l’Otto Modersohn che, nel maggio 1901, diventerà suo marito. La poetica della colonia di Worpswede implica un naturalismo tendente al simbolico, dove si fondono gli insegnamenti della scuola di Barbizon e di Arnold Böcklin. Rilke, che di questi artisti si fece sodale dedicandogli un libro nel 1902, forse esagerava nel considerare ‘nuovo’ il rapporto da essi stabilito con la natura: per Mackensen, Modersohn e gli altri la natura è muta, irrelata, abissalmente distante, e perciò stesso può farsi vocabolario dell’arte; il paesaggio, nella loro opera, sarebbe «come un oggetto, una grande realtà presente». Ma se in Modersohn i «crepuscoli fanno tremare il vello delle pecore», non deve trattarsi di un’arte così impersonale; Rilke sembra proiettare su questi pittori le proprie istanze di letterato, che lo porteranno alla lirica sovranamente «cosale» della sua produzione ultima. Del resto, anche i testi su Rodin e su Cézanne ci ragguagliano più sulle sue intime ragioni poetiche che sugli artisti in questione.

Che Rilke non fosse un critico d’arte divinatorio lo suggerisce il fatto che, amico di Paula, cui intestò nell’autunno 1908 il Requiem für eine Freundin, non colse il grado di novità, qui sì, rappresentato dalla sua ricerca: nessuno scritto saggistico a lei dedicato, neanche dopo la morte. I pittori di Worpswede, a loro volta, tenevano in sospetto la libertà con cui questa giovane, dopo avere assorbito la loro lezione, la ricodificava in forme più essenziali e geometrizzate. In una piccola mostra sulla Becker l’anno scorso al museo di Ascona, non mancava qualche saggio della fase pre-parigina: si poteva apprezzare, in particolare, come, nel paesaggio, tendesse ad asciugare i dati atmosferici cari a Modersohn e compagni in favore di una visione sintetica a fascie orizzontali che avrebbe presto ritrovato a Parigi, incoraggiandosene, nei Nabis; in alcuni grandi disegni a carboncino approfondiva un’idea di figura umana (le anziane contadine di Worpswede) spoglia e maestosa.

Nei più o meno lunghi soggiorni parigini la Modersohn-Becker sceglie con determinazione, da una piazza fin troppo ricca di suggerimenti, i modelli che possano aiutarla in questa direzione. Scorrendo in mostra la teoria in sviluppo di ritratti e autoritratti, e dei quadri a due figure (le maternità), è necessario sfuggire alla facile tentazione di leggerli come un derivato «moderno» di Gauguin. Paula, quando era a Berlino, aveva scritto che in natura la linea netta non esiste (al padre: «Se provi a osservare la tua mano vedrai che non è delimitata da una linea»), così le nere delimitazioni di Gauguin (cloisonnisme), che naturalmente le aprono gli occhi sul colore come espressione autonoma, non le riceve pacificamente: sembra voler scoprire cosa si nasconde oltre la linea di contorno, ha tentazioni plastiche, interessata com’è a rappresentare il blocco umano, nella sua naturale solennità. E se non è insensibile alla cultura simbolista fin-de-siècle (vuole visitare gli atelier di Vuillard e di Denis; si fa coinvolgere, nello spirito di Pont-Aven, dalle rochers sculptés di Rothéneuf, presso Saint-Malo), la interpreta non solo nel modo asciutto a lei proprio, ma insinuando possibilità concettuali a contrasto: nell’ultima fase, 1906-07, gli oggetti che pone in mano alle sue figure, fiori o frutti, sembrano staccarsi dalla loro funzione letteraria, sospendersi in una specie di limbo formale, di statuto pittorico, sulla linea Cézanne-Picasso (quando si tratta invece di vere e proprie nature morte il cézannismo si accademizza un po’). Lo stesso studio dei ritratti del Fayum, che la fulminano per la freschezza esistenziale che giunge da un remoto passato e per il grado zero dell’espressione, spingono in direzione novecentesca.

La tecnica ruvida l’encausto

La Becker, infatti, appassionandosi alla tecnica dell’encausto, ai suoi effetti di pastosità e ruvidezza, ne trae motivo per convincersi in via definitiva della ‘materialità’ del quadro, che in quanto materiale non può che essere «bizzarro» (parola sua) e imperfetto. Non solo: in una serie di autoritratti dell’estate 1906 sperimenta il procedimento del monotipo. Partendo da una prima tela, imprime su fogli di carta, anche di giornale, l’effige non ancora asciutta, ridipingendovi sopra. L’obiettivo è raggiungere, per stadi successivi, una totale spoliazione dell’immagine, un’opera integralmente pittorica e «primitiva», dove il volto, non disturbato da residui psicologici, si riduca a ‘maschera’. Nel piccolo Autoritratto rivolto verso sinistra…, la stessa mano al mento, che dovrebbe dire «meditazione», «malinconia», risulta solo un pezzo di vernice posto a barriera, un elemento di tipo architettonico. Con tutto questo, come si vede, siamo già quasi nel mondo del tableau-objet e persino del papier collé

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