Antonio Manetti (1423-1497) matematico e architetto, studioso dell’opera di Dante, autore d’una biografia del Brunelleschi, giunto ai suoi estremi anni i quali coincidono con gli ultimi del secolo, intorno, pare, al 1494, compone Vite di XIV huomini singhulary in Firenze dal MCCCC innanzi. Rivendica con orgoglio il suo secolo per come ha arricchito, con eccezionale dovizia, il prestigio della sua città e rende merito ad una generazione nei quattordici nomi che indica per esemplari. Tra questi quello di Tommaso Cassai che col secolo nasce, nel 1401, a San Giovanni Valdarno, e che, per impiegare le parole di Paolo Volponi, «più tardi, per qualche ragione della sua tristezza o della sua intemperanza, verrà soprannominato Masaccio». «Masaccio» Manetti ci dice: «pittore, uomo maraviglioso, insino a’ tempi sua, di chi s’abbia notizia, riputato el miglior maestro».

Celeberrimo commentatore della Commedia, coetraneo di Manetti, Cristoforo Landino (1424-1498) nella sua Apologia nella quale si difende Dante e Florenzia da’ falsi calunniatori nel 1481 scriveva: «Fu Masaccio optimo imitatore di natura di gran rilievo universale buono componitore et puro sanza ornato: perché solo si decte all’imitazione del vero: et al rilievo delle figure: fu certo buono et prospectivo quanto altro in quegli tempi: et di gran facilità nel fare essendo ben giovane che morì d’anni ventisei».

La grandezza di Masaccio fu subito riconosciuta non solo per eccezionale in un uomo così giovane, messosi in luce non ancora ventenne, ma proprio riguardo ai modi della sua espressione artistica che, come fosse stata alimentata da una vena sotterranea che da assai tempo fluiva, sortì alla luce del sole mostrandosi compiuta, perfetta, attraente nel suo dettato, quasi possedesse quell’avvenenza che appare irresistibile allo sbocciare della prima giovinezza. Un’idea del bello che con Masaccio si afferma come una consapevolezza nuova dell’humanitas e che non solo si apriva senza ulteriori proroghe, ma si presentava quale fertile humus ove crescere senza indugio la fioritura rinascimentale che risulterà straordinaria e destinata a determinare nei suoi solchi gli sviluppi d’una identità che, fino al Novecento, si è riconosciuta per europea.

A stare alla pagina di Landino, l’opera che fa di Masaccio il pittore «maraviglioso», per come lo designa Manetti, è il suo talento di «optimo imitatore di natura». Per questa dote, come afferma Vasari, «le sue fatiche meritano infinitissime lodi; e massimamente per avere egli dato ordine nel suo magisterio alla bella maniera de’ tempi nostri», ossia la pittura di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo. Del resto, Vasari riporta che, davanti agli affreschi della Cappella Brancacci al Carmine, in assidua osservazione, «tutti i più celebrati scultori e pittori che sono stati da lui in qua esercitandosi e studiando in questa cappella, sono divenuti eccellenti e chiari». E fa i nomi, tra altri, di Botticelli, di Ghirlandaio, di Perugino, di Leonardo. E, continuando, del «divinissimo Michelangelo Buonarroti. Raffaello ancora da Urbino di quivi trasse il principio della bella maniera sua».

Masaccio detta il decalogo, fornisce un «ordine» entro i margini del quale i costrutti della pittura ottengono nuovi raggiungimenti: «et insomma» ribadisce Vasari «tutti coloro che hanno cercato imparar quella arte, sono andati a imparar sempre a questa cappella, et apprendere i precetti e le regole del far bene da le figure di Masaccio». La prima regola da rispettare, allora, per quei pittori davanti all’opera di Masaccio fu quella che consentì loro di acquisire il metodo che sta alla radice della sua pittura, non la memorizzazione da applicare all’occorrenza ripetendo le soluzioni da Masaccio realizzate al Carmine.

Come imitare la natura, non l’arte. Nel Trattato della pittura Leonardo scrive: «Dopo Giotto l’arte ricadde, perché tutti imitavano le fatte pitture, e così andò declinando, insino a tanto che Tomaso fiorentino, scognominato Masaccio, mostrò con opra perfetta come quegli che pigliavano per altore (guida) altro che la natura, maestra de’ maestri, s’affaticavano invano»