Cultura

Marzio G. Mian, un imprevedibile passato per un Paese a venire

Marzio G. Mian, un imprevedibile passato per un Paese a venireNizhny Novgorod, lungo il corso del fiume Volga. Foto AP

L'intervista Parla l’autore di «Volga blues», pubblicato da Gramma/Feltrinelli. Un intenso reportage narrativo presentato oggi al Festival di Internazionale in corso a Ferrara. «Il grande fiume dà ancora delle risposte sulla storia nazionale. Come confermano gli incontri avuti con pope, imprenditori, mercenari, pacifisti. E i flashback che ricordano il passato». «Dopo il crollo dell’Urss si sono coalizzate forze e idee alla ricerca del "Santo Graal" dell’identità russa. Putin ne ha fatto un’ideologia una sorta di "destino manifesto" scritto in cirillico»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

Nel 2017 il patriarca di Mosca Kirill, accompagnato da Vladimir Putin, ne ha consacrato la fonte, equiparandola a quella battesimale delle cattedrali, attribuendo alle sue acque il potere di vegliare sulla «salvezza dell’anima del popolo russo». Più che la sua enorme estensione che traversa da nord a sud l’intera Russia europea facendone il fiume più lungo del Vecchio Continente, è perciò «la portata metafisica» del Volga a farne un ideale palcoscenico dove leggere gli umori, le passioni e le incertezze di quel Paese e dei suoi tanti popoli. Con questo spirito Marzio G. Mian ha compiuto il suo «viaggio nel cuore della Russia» che ora racconta in Volga blues (Gramma/Feltrinelli, pp. 320, euro 20), un intenso reportage narrativo che trasporta il lettore di tappa in tappa alla scoperta di un mondo che mai come oggi è diventato utile conoscere e capire. Accanto alle decine di interlocutori che Mian incontra, dall’autrice di «fiabe nazionaliste» al direttore dell’Ermitage, passando per i reduci del fronte ucraino e i giovani delle gang che infestano «città moribonde» come, tra le tante, Ul’janovsk, dove era nato Lenin, emergono, sullo sfondo, le tracce del passato sovietico e l’eco delle diverse fasi di una complessa e a volte contraddittoria storia nazionale.

Marzio G. Mian presenterà Volga blues oggi a Ferrara nell’ambito del Festival di Internazionale («Oltre il Cremlino», ore 11.30, Cortile del Castello, con Marta Allevato, Federico Varese, Andrea Pipino), il 9 ottobre a Genova e il 18 ottobre a Torino.

Marzio G. Mian

Seimila chilometri lungo le sponde di un fiume, che definisce come «l’autobiografia di un popolo», per tentare di comprendere cosa rappresenti oggi la Russia e cosa pensino, e provino i suoi abitanti: quali risposte ha trovato al termine del viaggio?
Con l’amico e fotografo Alessandro Cosmelli abbiamo scelto d’indagare la Russia seguendo la rotta maestra della sua storia e della sua identità – ed abbiamo avuto ragione. Il Volga dà ancora delle risposte. Che nel libro si possono leggere attraverso le voci di coloro che ho incontrato – imprenditori, pope, monaci, vedove, mercenari, pacifisti… – ma anche attraverso i flashback, i rimandi al passato e agli eventi che stanno alla base della situazione attuale. La risposta principale è senz’altro che la Russia oggi sostiene Putin molto più che all’inizio del conflitto, un conflitto che non è visto come contro l’Ucraina, ma contro l’intero Occidente. L’impressione finale è che è in atto uno scontro di civiltà ai confini orientali dell’Europa.

Fin dalle prime pagine del libro ci si imbatte nel peso che sembra avere nella Russia di oggi il concetto di «Russkij mir»: qualcosa a metà strada tra la filosofia e l’ideologia che racchiude fede, patriottismo, la memoria dello stalinismo come degli Zar e proietta il Paese verso un nuovo futuro imperiale. Al di là della propaganda, quanto pesa questa sorta di soft-power dell’era putiniana?
È un processo iniziato già negli Anni Novanta, il decennio maledetto seguito al crollo dell’Unione sovietica, quando la «nuova Russia» sperimentò la democrazia e il libero mercato. Furono anni di fame, violenza e umiliazione. Lì si coalizzarono forze, idee, movimenti che sembravano incompatibili tra loro ma accomunati dal bisogno di trovare o ritrovare «il Santo Graal» dell’identità russa. Vladimir Putin ha raccolto quelle pulsioni trasformandole in una ideologia, una sorta di «destino manifesto», ma scritto in cirillico. E come è accaduto in altre stagioni della storia russa la chiamata dello zar all’unità e al sacrificio corrisponde ad una maggiore repressione del dissenso. E i russi, di fronte alla brutalità del potere, appaiono ancora passivi e remissivi. Anche chi non ama Putin tende ad accettarlo come l’uomo forte che serve per fronteggiare la minaccia incombente di disfacimento della Russia – una paura molto diffusa.

Talvolta si può avere l’impressione che la società russa sia ormai fatta soprattutto di metropoli, quando invece, come lei racconta, milioni di russi vivono in realtà rurali dove è ancora viva l’eco dei massacri staliniani, ma anche l’orgoglio di essere «il granaio» del Paese colpito dalle sanzioni internazionali. Come si guarda da questi luoghi alla figura di Putin, spesso dipinto come espressione degli oligarchi o dei ceti medi delle grandi città?
Nel nostro viaggio abbiamo attraversato la grande pianura rurale, la steppa, i distretti dell’industria pesante, aree metropolitane di molte città tra le più grandi del Paese, come Jaroslavl, Nizhni Novgorod, Kazan, Samara, Volgograd, Astrakan… quindi uno spettro ampio di contesti sociali ed economici. In Volga blues racconto come soprattutto nelle città si ostenti normalità, business as usual, lavori pubblici, giardinieri nei parchi, ragazzi scatenati nella movida… Nelle città la guerra si percepisce come un rumore di fondo, come un frigorifero. Mentre nelle aree periferiche, nei villaggi, nelle cittadine industriali è dove i cimiteri sono pieni di tumuli freschi, di lapidi di ragazzi, ed è dove vengono dispiegati i grandi cartelli che incoraggiano l’arruolamento. Qui andare al fronte si trasforma in welfare: un ammortizzatore sociale. Ma la cosa più impressionante, complessivamente, nelle città come nelle pianure, è come Putin abbia, per ora, vinto la guerra commerciale. Le sanzioni, il più massiccio pacchetto di sanzioni mai varato nella storia, hanno innescato – per reazione e per il successo di un piano economico d’emergenza – lo sviluppo di molti settori, primo tra tutti quello dell’agroalimentare. Ho dedicato un intero capitolo alla rinascita di complessi che ricalcano la pianificazione dei vecchi kolkhoz e sovkhoz, dove hanno replicato le linee di produzione italiane, tedesche o israeliane. C’è poi un grande boom nell’allevamento, soprattutto di suini, esportati a milioni in Cina, dove i maiali russi hanno sostituito quelli americani.

Lei racconta che Putin ha letto tutto Hemingway ma non sembra interessato agli autori russi. La letteratura ha segnato profondamente un Paese che nella sua forma attuale conta una storia piuttosto recente, e questo malgrado sia sotto gli Zar che in epoca sovietica repressione e galere colpissero spesso scrittori e poeti. Cosa resiste oggi di una tradizione che ha contribuito a definire il prototipo dei diversi caratteri nazionali russi?
Per lungo tempo nella Russia di Putin gli scrittori hanno goduto di maggiori libertà rispetto ai giornalisti, anche perché la letteratura, proprio come accade in Occidente, non è più centrale nel dibattito pubblico. Il regime ha concentrato la sua attenzione sui media e su internet, è lì che la sorveglianza e la repressione sono stati più pesanti, e dove in molti hanno pagato con la vita. Ora, dopo l’invasione dell’Ucraina, le cose sono cambiate. È nato il Sistema federale per la supervisione delle comunicazioni, che vigila anche sull’editoria e dà la caccia agli «agenti stranieri». Una delle ragioni perché alcuni dei più brillanti scrittori russi, come Boris Akunin o Ljudmila Ulickaja sono fuggiti all’estero. Così come ai tempi di Stalin venivano emarginati come appestati o eliminati gli intellettuali non allineati con la promozione del marxismo, oggi a pagare è chi non si schiera con la promozione del patriottismo.

Nel corso del viaggio, e non soltanto in riferimento ad una sua precedente ricerca condotta lungo il corso del Mississippi, torna una sorta di parallelo tra Russia e America. Un elemento a prima vista sorprendente ma che forse ci rivela aspetti inediti dello spazio e della mentalità russe: di cosa si tratta?
Ferme restando le mille differenze, prima tra tutte quella che negli Stati Uniti chi dissente muore tranquillamente nel suo letto, ci sono molti aspetti comuni tra Russia e Stati Uniti. Ad esempio una certa prepotenza missionaria nel sentirsi eccezionali, la nuova Terra promessa, la salvezza del mondo. E poi la retorica patriottica e imperiale, l’assuefazione alla violenza, l’accettazione della guerra come evento fisiologico e non straordinario se si vuole dettare il racconto della Storia. Certi cimiteri di caduti di guerra visti in Russia erano quasi uguali a quelli che ho visto nei miei tanti viaggi nella provincia americana. Anche tanti paesaggi sono quasi sovrapponibili. Alessandro Cosmelli durante il viaggio diceva che gli orizzonti larghi, e quello spazio che sembra pieno di nulla, gli ricordavano il Midwest americano.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento