Mary Poppins ritorna, ma tutto è cambiato nell’apparenza uguale
Al cinema Rob Marshall alla regia del sequel/remake del musical del 1964, con Emily Blunt nei panni della «magica» tata
Al cinema Rob Marshall alla regia del sequel/remake del musical del 1964, con Emily Blunt nei panni della «magica» tata
I «ritorni» sono un po’ come i «crescono», capitoli di un sequel che sprigiona nostalgia «a priori» nell’idea stessa di ripercorrere i luoghi del passato – specie se divenuto immaginario condiviso – dove tutto è cambiato nell’apparenza uguale. E anche se sempre giovane e bella, come il riflesso che ammicca dallo specchio, è cambiata anche lei, Mary Poppins, l’incantevole tata un po’ magica che arriva dal cielo librandosi col suo ombrellino, una borsa che tutte noi vorremmo per capacità di contenere l’oggetto necessario a ogni occasione e un look severo ma molto glamour, quando da qualche parte sulla terra le cose si fanno buie, le tristezze attorcigliano i cuori, e la capacità di stupore e incanto si è consumata.
«MARY POPPINS», il musical di Robert Stevenson del 1964, con Julie Andrews che dava vita al personaggio creato da Pamela Lyndon Travers – a cui la scrittrice ha dedicato una serie – le musiche (premio Oscar) di Robert Sherman, Richard Sherman e Irwin Kostal, Dick Van Dyke nel ruolo di Bert lo spazzacamino, ha attraversato i decenni diventando patrimonio dell’immaginario mondiale. Ritornare lì era dunque ancora più difficile. Robert Marshall dichiara subito il sequel, in un disegno (troppo poco) sfacciatamente postmoderno di citazioni, omaggi e ammiccamenti. Il ritorno di Mary Poppins (Mary Poppins Returns) – come è il titolo del romanzo di Travers – accumula fantasie sottomarine, visioni vagamente lisergiche a filo del bordo di un vaso, creature antropomorfe, mondi rovesciati (la casa di Topsy la cugina di Mary Poppins, cameo di Meryl Streep). E apparizioni come quella di Angela Lansbury venditrice di palloncini del destino – era la protagonista di Pomi d’ottone e manici di scopa altro successo di Stevenson – e di Van Dyke .
LONDRA 1930, la famiglia Banks abita ancora nella vecchia casa di Viale dei Ciliegi, Michael (Ben Wishaw) e Jane (Emily Morton) sono cresciuti: lui ha appena perso la moglie, è rimasto solo con tre figli piccoli, sognava di essere artista e invece lavora in banca, diciamo che è uno di quei tipi piuttosto inetti, dei quali la moglie si prendeva cura accollandosi tutte le responsabilità (tra l’altro i suoi quadri che si scorgono in soffitta non sono un granché) e adesso sono i tre figlietti a consolarlo. Jane ha ereditato dalla mamma la passione per la lotta politica, è una sindacalista schierata coi lavoratori che la Grande Depressione sta inghiottendo insieme a ogni loro diritto. Lo spazzacamino (Lin-Manuel Miranda, il meno riuscito nel cast) è diventato un lampionaio mentre Mary Poppins, che è Emily Blunt, continua a volare senza perdere il cappellino e senza che le gonne le si spostino di un centimetro. «Non sei cambiata» dicono i due fratelli Banks quando se la trovano davanti, un po’ stupiti, un po’ felici mentre i bambini che si sentono adulti oppongono resistenza. Sappiamo che non è così.
LE FIGURE della realtà e la dimensione fantastica si intrecciano in ogni sogno, sono le persone che circondano i bambini, gli incubi, le ansie, prima di tutte quella di perdere la casa per una serie di ipoteche che il padre non ha pagato. Ci sarebbe una salvezza, le azioni messe da parte dal vecchio signor Banks che però non si trovano, e poi il nuovo direttore della banca (Colin Firth), untuosamente amichevole, in realtà vuole approfittare il più possibile della situazione economica – ieri come oggi – per rovinare i suoi clienti. Intanto Mary Poppins continua a far viaggiare i piccoli Banks, alla scoperta di Londra e di se stessi, sotto e sopra – peccato che il doppiaggio banalizzi ancora di più il tutto, va bene per i bambini ma l’alternativa in originale sarebbe gradita specie oggi a proposito delle discussioni sulla sala. Lasciando da parte i confronti – l’originale i libri ecc. – il film non è capace di cogliere il romanzo di formazione della storia e tanto meno la sua forza inventiva con cui capovolgere il mondo – «topsy-turvy» – che qualche numero di danza non basta a restituire. Facendo sfoggio di acrobazie e soluzioni assai ginniche – come già era in Chicago – Marshall realizza un bon bon di confezione scintillante ma molto programmatico. La fantasia rimane altrove.
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