Non c’è più l’ombra pesante del padre. È il primo sentore forte di questi versi de L’economia amorosa (riproposti e selezionati da Coup d’idée, Edizioni d’Arte di Enrica Dorna, pp. 80, 14 euro) puliti, nitidi che propongono una poesia come respiro profondo. Per Mary de Rachewiltz l’eredità non deve essere stata leggera, per lei che ha comunque laboriosamente salvato-tradotto il corpus testimoniale rappresentato dai Cantos di Ezra Pound, e che ha vissuto con rabbia la sconfitta di non essere riuscita a difendere nemmeno la memoria poetica – ché quella storica è tragedia – dall’uso e dall’abuso dei neofascisti italiani e dei luoghi comuni.

Senza quell’ombra, che pure ha avuto un ruolo significativo nella sua vita, i versi scarni sempre di misura breve se non brevissima, pochi sono gli endecasillabi, si espandono confidando in assoluto sulla parola perché diventi capace di confrontarsi con le rovine circostanti ma soprattutto con la natura che tutto rinnova nel suo cambiamento. Situandoci dentro nuova vita e nuova scrittura. «Sono stata pastora/ e pratica di monti/ gole grotte e spalti/ dove per la calura/ o tempesta improvvisa/ si accalcano le greggi/ (…)».

DUNQUE NON SOLO non c’è più l’ombra del padre pesante, qui c’è l’inverarsi d’un nuovo sentire cortese. La poesia si fa ambiente e «ambientalismo», bandiera di una esistenza minore, di un adagiarsi biologico a partecipare della natura che altrimenti e altrove verrebbe corrotta e distrutta. A salvare con il «tu» della persona l’ultimo degli arbusti, i muretti a secco, le bacche, le siepi e il «fico prolifico e grasso/ tieni d’occhio le crepe/ e le radici snelle«. Le capre che «…m’accompagnano/ meste più d’un vero Chagall».

È un procedere pericoloso ma consapevole, avvertito della sua preziosa debolezza, che nasconde nell’armadio delle evocazioni la memoria dolorosa d’una morte avvenuta da qualche parte, dentro e fuori, di un disastro vegetale animale accaduto o prossimo, vivido. Sia per il balestruccio, trovato nella casa abitata ma «sorta dalle rovine»: «…morto. Per anni/ lo abbiamo tenuto/ in torretta insieme/ a cimeli di rose/ papaveri e farfalle»; sia per l’agave sradicata che «solitaria vegliava». Il suo animalario stupisce, qui le capre hanno occhi che diventano «topazi» e il loro strame vale una epifania, in piena aperta metamorfosi esistenziale con gli esseri umani e con l’infanzia di se stessa: «Sono tutt’uno/ balene e balie/ se il veliero respinto/ da una terra di padri/ privi di grano/ va alla deriva»; e ancora «nel regno dei fiori/ un albero può essere il padre/ di tutti noi nani (…)/».

E GLI UMANI? Risalgono la corrente, dalla foce alla sorgente. Questo è il movimento necessario della poesia, il procedere «da naufrago» cercando senza fine la sponda per l’approdo quello che propone il poeta – come nota giustamente nella post-fazione Giancarlo Pontiggia. Alle prese con gli amori e con il confronto dove «il tu è una cosa nuda/ noi due non siamo mai/ arrivati a darci / del tu teneramente»; che trasformano la nostra natura: «A seconda dei nostri amori/ cambiamo voce e madre lingua».

Resta la serenità nel nominare-rifondare le forme della vita attorno, il dire in versi come restituzione di origine. Così diventa il poeta, mentre avverte che il verso si fa più lungo come allestito da un laborioso fabbro lontano, una sorta di «economia amorosa»: «…nel ripiegare una vecchia gonna/ di anno in anno non me ne posso/ staccare. “Vesti male”, protestano/ le amiche, mentre io mi sento padrona/ di una stoffa indistruttibile/ che dall’inizio del grande viaggio/ nel magma dell’invisibile parlare/ mi accompagna insieme alle tue mani (…)/». Tutta la poesia di Mary de Rachewiltz respira in un enclave misteriosa dove il vegetale-animale e l’umano costituiscono un habitat millenario possibile che ha resistito alla storia e che diventa all’improvviso domestico grazie alla parola che si fa misura.