Mary Butts, felice miscela di misteri e mondanità tipicamente londinese
«A Bloomsbury», racconti contromodernisti, tradotti per la prima volta da Safarà
«A Bloomsbury», racconti contromodernisti, tradotti per la prima volta da Safarà
Nell’arte, una cosa è vera soltanto quando a esser vero è anche il suo contrario, diceva Oscar Wilde. E la letteratura, dove l’ambiguità è tutto, vive da sempre della frizione tra opposte forze che tentano di venire riconciliate. Quando Mary Butts – che nella congrega magico-occultista di Alesteir Crowley si faceva chiamare Soror Rhodon – lasciò la Sicilia nel settembre del 1921, annotò nel suo diario: «io diverrò la scrittrice che sono in grado di diventare, e non un’adepta illuminata, una maga, o un maestro di questo o quel tempio».
Tre mesi prima, giunta col compagno nell’abbazia di Thelema gestita da Crowley – alias Perdurabo, o The Beast che dir si voglia – aveva annotato: «qui voglio studiare e divertirmi, e se possibile accedere al mondo fatato, a quello della mitologia, e al mondo delle buone storie di fantasmi». Per Butts tra gli interessi letterari e quelli per il mondo dell’invisibile non esisteva differenza alcuna. E infatti, tra i suoi propositi nell’accettare l’invito di Crowley aveva esplicitato il voler scrivere «un libro che dimostrasse la relazione tra arte e magia, e mostrare l’artista quale unico vero adepto, in quanto lo è obliquamente».
I libri di Mary Butts, figura letteraria trasversale ma importante del modernismo inglese, sono rimasti nell’oblio a partire dalla sua morte nel 1939, solo per essere poi sommessamente riscoperti a partire dagli anni Ottanta. L’editore Safarà ripropone ora, per la prima volta in traduzione italiana, una scelta di racconti, che prende il titolo da uno dei suoi migliori: A Bloomsbury (traduzione di Giulia Betti e Cristina Pascotto, pp. 168, euro 16.00). Nelle storie proposte troviamo una felice miscela di misteri e mondanità tipicamente londinese, conditi da un senso di aporia, di indecidibilità narrativa e di levità stilistica che sono, se vogliamo, la risposta a un certo ombroso concettismo modernista capace di stabilizzarsi meglio nell’immaginario collettivo. Sia dal punto di vista biografico, che per quanto riguarda la notorietà acquisita, Mary Butts è passata in secondo piano rispetto ai suoi colleghi contemporanei: viene citata però nei diari di Crowley e in quelli di Virginia Woolf, nelle memorie di Evelyn Waugh e, trasfigurata, in un romanzo comico di Huxley.
Eppure, questa donna imponente dai capelli rosso fiammante, capace di far venire la pelle d’oca a Ford Madox Ford, occupa un ruolo di rilievo in quel periodo storico tra le due guerre in cui la letteratura inglese stentava a trovare una direzione, ostinandosi a attardarsi tra sperimentalismi estetici e profonde ansie individuali, tra la necessità di ricostruire un tessuto letterario andatosi gradualmente sfaldando con la fine del vittorianesimo, e l’obbligo di raccontare un presente scomposto e frammentato. I racconti di Mary Butts, nella loro eterodossia, provano a riconciliare queste tensioni, regalandoci immaginari e vissuti che per una volta si risolvono in fortunati finali sfumati, dissolvendosi lentamente senza mai donare al lettore certezze consolatorie.
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