Il carteggio Marx-Engels occupò uno spazio temporale di quasi 40 anni, dal 1844 al 1883. I due si concentrarono su temi vari; eppure non si va molto lontano dal vero sostenendo che il rapporto fra filosofia e politica ebbe un ruolo privilegiato o, comunque, costituì una sorta di fiume carsico delle discussioni fra i due. Uno degli argomenti più affrontati, seppure non sempre portato alla luce con la necessaria cura, è il tema della rivoluzione in Occidente. Ora un saggio di Fabio Vander colma la lacuna (La logica delle cose. La rivoluzione in Occidente nel carteggio Marx-Engels (1844-1883), Mimesis, pp. 112, euro 10).

LA LOGICA DELLE COSE, che dà il titolo al lavoro, è quella fatta presente da Marx in una lettera a Wilhelm Liebknecht, poi riportata in una missiva ad Engels del febbraio 1865, e vorrebbe dimostrare «che ogni forma di collaborazione del movimento operaio con forze moderate o addirittura autoritarie (come nel caso di Bismarck o Bonaparte) sarebbe stata per esso esiziale». Ragionamento politico nel senso più proprio del termine; le alleanze del movimento operaio sono quelle che possono consentirgli, in Occidente, di fare politica, ossia politica rivoluzionaria, cioè politica «sociale, istituzionale, internazionalista al tempo stesso».

La questione delle alleanze si pone, secondo Vander, a partire dall’autonomia del partito operaio, e, quindi, dalla necessità, in primis, che un simile partito esista, e, in secondo luogo, dalla capacità egemonica del movimento operaio agita al fine di porlo nelle condizioni di dirigere gli alleati e non di farsi dirigere o, peggio ancora, dominare da essi che, in quanto dominanti, non sarebbero più alleati.

Tale logica delle cose ha, inoltre, una specifica caratterizzazione filosofica, ossia è dialettica in senso ontologico, in senso gnoseologico, in quanto metodo di conoscenza, in senso morale, in quanto metodo pedagogico (in questo modo l’autore si esprime nell’Appendice del volume che, seppure sviluppata in forma di critica di Althusser, è dedicata ad alcune delle maggiori letture di Marx, e non si limita ad una semplice descrizione delle riflessioni sul filosofo di Treviri di Dal Pra, Badaloni, Kojève, Lukács, per citare alcuni degli autori presi in considerazione, ma persegue l’obiettivo di rendere più evidente filosoficamente ciò che lo era politicamente nella prima parte in cui l’analisi del carteggio è preponderante).

«LA GRANDE SVOLTA storica del socialismo», espressione che l’autore fa propria riprendendola da Franco Venturi, è tutta politica nel momento in cui vengono abbandonati spontaneismo e anarchismo e la sua realizzazione avviene dapprima nella Comune di Parigi e, poi, nei movimenti che daranno vita alla Seconda Internazionale. La rivoluzione in Occidente doveva essere politica, «non spontaneista, non insurrezionalista, non anarchica». Per questo, si evince dal carteggio, necessitava una grande organizzazione, un movimento autonomo e maturo dal punto di vista politico in grado, ad esempio, di fare del suffragio una vera conquista democratica da non lasciare nelle mani dei conservatori.

Al momento della guerra franco-prussiana del 1870-1871 Marx ed Engels, ricorda Vander, sostenevano che «la rivoluzione in Occidente, ancora dopo la fine delle ostilità» si sarebbe realizzata «sull’onda delle quadrate legioni di Prussia». Proprio all’altezza di questo evento il carteggio si interrompe; infatti l’ultima lettera di Marx è del 16 settembre 1870 e la ripresa dello scambio epistolare è segnata da una lettera di Engels del 18 agosto 1871. In questo arco di tempo Marx, per incarico e a nome dell’Associazione internazionale degli operai, redige La guerra civile in Francia approvata dal Consiglio generale dell’Internazionale il 30 maggio 1871, due giorni dopo la caduta delle ultime barricate di Parigi.

Con molta acutezza Gramsci coglie il significato e l’esito delle giornate della Comune la quale, di fatto, si ribellò all’Assemblea Nazionale di Versailles, formata con il suffragio universale, comprendendo la realtà del conflitto fra progresso e suffragio, ma rovinò perché i portatori di questa esperienza storica «vengono immediatamente soppressi». E Vander integra scrivendo che proprio la fine nel sangue della Comune sta a dimostrare che «senza una classe operaia autonoma, nazionale, organizzata» non ci può essere rivoluzione in Occidente. E allora, quale rivoluzione dopo la Comune? O meglio, dove avrebbe potuto aver luogo una rivoluzione in Occidente?

IL PUNTO DI VISTA di Marx ed Engels, secondo l’autore, è totalmente occidentale, verrebbe da dire eurocentrico, in quanto, anche quando prendono in considerazione realtà extraeuropee, come gli Usa e la Russia, la conclusione dei due è per una europeizzazione delle strutture di quei Paesi che si dirigono verso un’affermazione sempre più evidente del capitalismo. Quindi, in un mondo occidentalizzato la rivoluzione avrebbe potuto avere luogo in qualsiasi Paese a struttura economica occidentalizzata, in specie in Europa.

Invece le repliche della storia, dovute a chi le determinò, consegnarono al riformismo della Seconda Internazionale e a partiti che poco a vedere avevano con il marxismo i destini del movimento operaio. Per arrivare a tentate rivoluzioni in Occidente ci vollero una guerra mondiale e l’Ottobre russo. E nonostante questo, le rivoluzioni in Occidente fallirono e su tale fallimento ebbe modo di riflettere Gramsci attraverso le note carcerarie che, ancora oggi, costituiscono un’indispensabile cassetta degli attrezzi per chi abbia a cuore il possibile mutamento dello stato presente delle cose.