Alla fine del XIX secolo, sette uomini in viaggio verso i luoghi più remoti dell’Oriente e dell’Africa incrociano una creatura inquietante, che conduce questi stessi sette uomini a raccontare nel dettaglio a noi lettrici e lettori gli incontri con lei, tramite il filtro di un testo solforoso redatto da un abate sacrilego. Questa è la storia raccontata in Maleficium (Alter Ego, pp. 164, euro 17) dalla scrittrice quebecchese Martine Desjardins nella traduzione impeccabile di Ornella Tajani, che riesce a rendere i preziosismi che caratterizzano le scelte lessicali di Desjardins, la quale grazie a un manierismo bello confeziona una favola disturbante, dagli accenti gotici.

L’anno scorso usciva in Italia, sempre per Alter Ego, il suo Medusa che in realtà è un’opera uscita a dieci anni di distanza rispetto a Maleficium che risale invece al 2009. I due testi si parlano, e non solo in ordine all’immaginario autoriale e alla cifra stilistica – per cui certe tematiche ritornano, così come le abitudini stilistiche. Dialogano come due opere sorelle, in cui sembra esserci una sola personaggia.

Le storie delle due giovani donne si sviluppano secondo il carattere del doppio, che sappiamo essere emblematica nella letteratura gotica: il bene e il male, la verità e la menzogna, la virtù e il peccato, la purezza e la perversione. La voce narrante di Desjardins ribalta le dinamiche e svela con perizia le apparenze, anche quelle più ingannevoli, rivelando come dietro a quelle che ci paiono mostruosità possano celarsi le più incantevoli bellezze.

Se la personaggia di Medusa portava negli occhi la marca della diversità, quella di Maleficium la porta nella bocca ma anche in tutte quelle caratteristiche fisiche fuori norma che conducono i sette uomini alla perdizione: «Persi il senso dell’equilibrio e sentii una vertigine deliziosa che, nello stato di smarrimento in cui ero, volli solo prolungare. Con la mente che vacillava mi chinai sul condotto uditivo della donna e mi ci tuffai con lo sguardo come dentro una tana. Mi si spalancò davanti una rete di interminabili gallerie. Attraversai vestiboli ingombri di radici e camere immerse in bagliori rossi, scavalcando fossi senza fondo, sbucando davanti a torrioni e fienili rivestiti d’erba secca. Presi un tunnel che scendeva a precipizio, sempre più giù, fin sotto la crosta terrestre, dove scorrono fiumi di lava e ribollono pozze di magma. Ero giunto ai sotterranei dell’inferno?»

Martine Desjardins / foto Ivanoh Demers, La Presse

«Maleficium» è densissimo di riferimenti colti, che spaziano dalla medicina all’entomologia, dalla chimica alla botanica. Attraverso tutti questi dettagli lei riesce a dipingere un affresco barocco che ci invita a viaggiare certamente sul filo dell’esotismo dell’altrove orientale ma anche su quello delle nostre ossessioni. Cosa ne pensa?
Per anni non ho potuto viaggiare a causa di disturbi d’ansia. Quindi Maleficium è stato prima di tutto un modo per evadere dal mio mondo ristretto, per allontanarmi da tutto. Mi sono lasciata guidare dai resoconti di viaggio del XIX secolo, ho scelto le destinazioni che mi sembravano più misteriose e ho trovato delle specialità locali (zafferano, guscio di tartaruga, sapone, ecc.) che mi hanno aiutato a costruire ogni storia. I riferimenti storici e i dettagli scientifici servono a dare un po’ di credibilità agli elementi fantastici. In questo modo, ho potuto assecondare le mie ossessioni senza limitazioni: la scoperta di stranezze, la ricerca enciclopedica e la stimolazione della mia curiosità. Effettivamente il mio romanzo cerca di capire perché la mente si fissa su certe cose invece che su altre.

Nel suo testo quei ruoli che sembrano fissi e prestabiliti si rovesciano, rivelando alle lettrici e ai lettori quanto le apparenze possano essere mendaci. Da dove nasce il suo sospetto nei confronti di ciò che è rassicurante e il gusto per ciò che non lo è?
Un vecchio detto dice: «Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo». I protagonisti del romanzo sono eccitati da oggetti rari e preziosi, e soprattutto dal desiderio di possederli. Essi stessi conferiscono loro un certo potere magico, sperando di ottenere un accrescimento narcisistico. La pagano cara quando gli oggetti rivelano il loro vero prezzo. Da una parte ciò ricorda il saccheggio che gli occidentali hanno fatto in Oriente, dall’altra la natura ingannevole delle confessioni dei sette uomini ricorda le false promesse dei pubblicitari, le maldicenze dei social network, i condizionamenti dei media e così via.

La protagonista indiscussa del testo è una donna, la cui forza deriva dalla sua capacità di sopravvivere alle avversità – nel rifiuto dello statuto di vittima. Dove risiede questa forza e quanto conta che sia una donna ad agirla?
La donna col labbro leporino è una variazione sulla figura della strega: la donna brutta sospettata di intenzioni malvagie, accusata di crimini, denunciata alle autorità religiose, torturata per estorcerle una confessione, condannata e infine giustiziata. Non si tratta però della semplice serva del demonio del Malleus Maleficarum, ma di una maga che trae i suoi poteri e i suoi oggetti malefici dal proprio corpo femminile (vulva, coda vestigiale, ombelico, capelli), comprese le sue secrezioni (sudore, sebo, cerume, saliva).

Il testo è costruito come un incastro di racconti che in realtà potrebbero stare a sé stanti, ma che nell’insieme compongono un mosaico in cui tutto si regge sul mistero: la numerologia, la sacralità dei rituali, la religione e l’eresia. Troviamo anche una cornice che funge da avvertimento alle lettrici e ai lettori. Vuole raccontarci di cosa si nutre il suo immaginario?
Ho avuto un’educazione religiosa in un’epoca in cui la Chiesa cattolica dominava ancora il Québec, quindi è inevitabile che l’immaginario cristiano, i suoi rituali e i suoi feticci giochino un ruolo importante nel mio proprio immaginario. Tuttavia, come reazione a questa educazione, continuo a preferire tutto ciò che è eretico. Ho una netta attrazione per la letteratura fantasy, i film horror, la musica metal, l’estetica gotica, i cimiteri e le rovine. Mi piace molto anche il giardinaggio e sono affascinata dalla natura, che mi ispira altrettanto.

Come nel romanzo «Medusa», la protagonista è una donna con una deformità fisica – che è lo stigma che la personaggia si porta dietro ma anche la chiave di comprensione del mistero, la rivelazione ultima. Senza svelarcela può spiegarci da dove deriva la sua attenzione a quelle che sono considerate come «deviazioni» dalla «norma anatomica»?
Mi ha colpito una scena del Processo di Kafka in cui Leni, l’infermiera dell’avvocato, mostra a K. la sua mano palmata, causandogli una grande confusione sessuale. La norma è un costrutto sociale e non garantisce davvero in alcun modo l’accettazione o l’amore degli altri. Nei miei romanzi, la deformità fisica rappresenta la profonda individualità di una persona, ciò che la rende unica. Se Medusa nascondeva la sua deformità per la vergogna di non conformarsi, l’eroina di Maleficium invece la mostra per sfidare il conformismo.