Una folla di afroamericani brutalizzati selvaggiamente dalla polizia, la lotta contro la discriminazione razziale nel diritto di accesso al voto, la sporca realtà della trattativa politica, un leader visionario che però tradiva la moglie, un presidente che dice: «Non c’è un problema dei neri, un problema del Sud e un problema del Nord. C’è un problema dell’America»…..Selma (negli Usa in uscita il 9 gennaio, in Italia il 2 aprile)è un film ambientato nel 1965 ma che parla del 2015. Infatti, il limite dell’intelligente, elegante, ambizioso, a tratti emozionante, lavoro di Ava DuVernay, prodotto dalla Plan B di Brad Pitt (che l’anno scorso ci aveva dato 12 anni schiavo) è forse proprio quello di voler imbrigliare così strettamente lo spirito del (nostro) tempo da togliergli il respiro. Un anno dopo «il caso Steve McQueen», nel pieno di un’altra campagna Oscar, Selma arriva accompagnato anche lui da un’aura (extrafilmica) di calcolata inevitabilità , e da qualche controversia sulla fedeltà storica.

In un perfetto incontro tra giustezza poetica e timing, dopo che la sceneggiatura dell’inglese Paul Webb era già passata per le mani, di Stephen Frears, Michael Mann e Lee Daniels, è stato affidato a una donna afroamericana il compito di dirigere il primo film mai realizzato su Martin Luther King. Grandi leader del movimento come Malcolm X (Spike Lee, 1992) e Medgar Evers (Ghost of Mississipi di Rob Reiner, 1996,) sono già stati soggetti di biopic hollywoodiani; e la storia della lotta per i diritti civili è stata trattata in film diversissimi tra loro, come L’odio esplode a Dallas di Roger Corman (1962), Mississippi Burning di Alan Parker (1988), e, solo l’anno scorso, The Butler, di Lee Daniels.

Lo stesso King è apparso spesso come personaggio, al cinema e in tv : da The Private Files of Edgar J. Hoover di Larry Cohen , a Crazy in Alabama di Antonio Banderas, a Alì di Michael Mann, fino a un episodio di Twilight Zone e parecchi di Saturday Night Live. Ma Selma è il primo film incentrato interamente sulla sua figura. Non si tratta, come succede spesso con un personaggio di questa statura, di una bio/agiografia panoramica: Selma (che ha un budget da 20 milioni di dollari e negli Stati uniti è distribuito dalla Paramount) si concentra su un episodio specifico, la marcia da Selma a Montgomery che, nel marzo del 1965, rese possibile una legge federale, il Voting Rights Act, intesa a proteggere il diritto al voto di tutti i cittadini Usa, a prescindere dal colore della pelle.

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L’attore inglese David Oyelowo è Martin Luther King, Tom Wilkinson (inglese anche lui) la sua nemesi, Lyndon Johnson; sempre dall’Inghilterra, Carmen Ejogo è Coretta Scott King e Tim Roth il governatore razzista George Wallace; mentre Dylan Baker interpreta un viscidissimo Edgar J. Hoover e Oprah Winfrey (anche co-produttrice) Annie Lee Coper, un’infermiera che perse il lavoro dopo aver tentato più volte, e invano, di iscriversi alle liste elettorali. Fondamentale, dietro alla macchina da presa, è il lavoro del direttore della fotografia Bradford Young, l’occhio più colto ed elettrizzante del nuovo black cinema (Mother of George, Pariah, Restless e, già al fianco di Du Vernay, per Middle of Nowhere ) che porta alla luce e al taglio delle inquadrature la prospettiva storico/culturale profonda del suo maestro alla Howard University, Haile Gerima.

Costruito su infinite sfumature di nero, intorno ai volti dei personaggi fotografati come se fossero paessaggi, al contorno delle loro teste, alle silhouettes scure dei corpi contro la luce bianca di una finestra o i fari di un’auto della polizia che li picchierà a sangue, Selma ha la stoffa maestosa di un kolossal intimista, un senso di scala e tempo epico che sfugge clamorosamente a produzioni molto più grandiose, «alla» Exodus. Come Lincoln e House of Cards, il film di DuVerney (che è stata per anni una nota publicist hollywoodiana) investe sull’attuale fascinazione per il processo politico, nei suoi dettagli meno idealistici. La spregiudicatezza strategica di King (piuttosto che la sua dimensione di leader carismatico) è infatti al cuore del film, giocato intorno a un serrato duetto tra lui e Johnson, in cui il presidente vorrebbe dare priorità alla sua guerra contro la povertà , mettendo in secondo piano la legge sul voto, e King lo costringe ad agire diversamente organizzando – a beneficio dei media nazionali – una manifestazione pacifica sotto il naso di uno sceriffo razzista che, inevitabilmente, la farà finire nel sangue.

Trasmesse dalla Abc, il 7 marzo 1965, interrompendo la messa in onda di Il processo di Norimberga, le immagini dei poliziotti dell’Alabama che picchiavano ferocemente una folla inerme di afroamericani sull’Edmund Pettus Bridge misero alle strette la Casa Bianca e il Congresso. Quella domenica la marcia si fermò a Selma.
Per scelta di King, e prima che scoppiassero altre violenze, i dimostranti si fermarono al ponte anche due giorni dopo. Al terzo tentativo, e grazie alla sentenza di un giudice, la manifestazione ebbe finalmente il suo corso fino a Montgomery. Entro agosto Johnson avrebbe firmato la nuova legge. Insieme a King, Johnson, Hoover, Wallace, DuVernay arricchisce la texture del suo film popolandolo di altri protagonisti del movimento, come il futuro ambasciatore all’Onu e sindaco di Atlanta Andrew Young (allora un membro della Southern Christian Leadership Conference), il deputato della Georgia John Robert Lewis (allora dello Student Nonviolent Coordinating Committee) e Amelia Boyton, la leader degli attivisti di Selma che invitò King in città.

Le donne, in generale, sembrano più importanti, rispetto alla storiografia ufficiale, a partire da Coretta Scott King. Ed è proprio sul dato storiografico che Selma sta sollevando delle critiche, prima fra tutti quella di aver trattato con eccessiva durezza Lyndon Johnson. In difesa del presidente sono scesi suoi ex collaboratori come George Califano, o il direttore della LYondon Johnson Library Mark Updegrove e lo storico Gary May: Johnson sarebbe stato un alleato di King e non un avversario, come invece appare nel film.