Martin Amis è stato un esempio di quelli che James English ha definito celebrity novelists, autori la cui personalità domina la ricezione della loro opera. In qualche modo, infatti, in questi ultimi decenni, lo scrittore inglese si era fatto egli stesso opera, spazio di confusione tra vita e scrittura. Geoff Dyer, altro grande protagonista della letteratura contemporanea britannica, ha recentemente evocato il fascino di questo charming man incontrato a un party nei primi anni 2000 a Londra, rimanendone sconvolto, in qualche modo intossicato: per lui – ha raccontato – Amis è stato un «Mick Jagger in forma letteraria», in altre parole una pop star.

SUBITO DOPO LA NOTIZIA della morte, Salman Rushdie, ricordando l’amico scrittore, ha detto che Martin Amis aveva in realtà tre padri: quello vero, ossia Kingsley, e i due suoi modelli letterari, Vladimir Nabokov e Saul Bellow, ripetutamente evocati anche nelle pagine del suo più recente romanzo autobiografico, La storia da dentro, uscito in questi giorni da Einaudi.

Sebbene fosse stato in gioventù una delle voci più rappresentative dei giovani arrabbiati, Martin finì per diventare un misantropo conservatore. E tuttavia Rushdie nota come proprio dal padre avesse ereditato il gusto per un certo tipo di commedia low: Kingsley raccontava spesso una storia riguardo a un cane che abbaiando emetteva un suono simile a «fuck off», e in un celebre romanzo di Martin, Lionel Asbo, due cani abbaiano esattamente a quel modo.

Già nell’incipit del suo primo romanzo, The Rachel Papers del 1973, con cui Martin Amis vinse il Somerset Maughan Prize, accanto alla voce divertita e divertente del giovane narratore risuona l’eco del mondo universitario caro a suo padre: «mi chiamo Charles Highway, anche se a guardarmi non si direbbe. È un nome slanciato, che ha viaggiato molto, un nome cazzuto e, a guardarmi, io non sono niente di tutto questo». Quanto ai suoi modelli letterari, da Nabokov Martin Amis prese quella sorta di intellettualismo in base al quale, ad esempio, per il lettore dovrebbe contare di più identificarsi con l’atto creativo dell’autore che non immedesimarsi nei personaggi. E da Bellow – che nella sua raccolta del 1983 The Moronic Inferno Amis definì una «tartaruga onnisciente» – ereditò una vera e propria ossessione per lo stile, dalla costruzione di ogni singola frase a un’idea di riff riversata in lunghi sproloqui, che Amis ricalca sulle tirate di Moses Herzog, protagonista del celebre romanzo di Bellow.

Se è vero, come sosteneva T.S. Eliot, che il talento dello scrittore emerge proprio là dove egli riesce a restituire le molteplici voci dei suoi maestri, l’unicità della prosa di Amis si rivela proprio nella affascinante dialogica dispiegata nei suoi romanzi, dove la parola letteraria si fa concerto.

TRA L’INTONAZIONE DELLA VOCE di Amis nella vita quotidiana e le inflessioni dei suoi personaggi c’era, in realtà, una continuità palese, che portava notizie sia della sua provenienza upper-class che dell’approdo al registro americanizzato: il personaggio di John Self, per esempio, nel suo fortunato Money del 1984, è un esempio di very British failure, mentre si abbandona a forme di dubbio su di sé e sulla sua vita che sembrano essere molto poco americane; e tuttavia le sue enunciazioni si nutrono tanto del gergo di Hemingway quanto della tradizione del romanzo inglese. Regista pubblicitario di Londra, che viene invitato a New York da un produttore cinematografico per girare il suo primo film, Self è un esempio di edonista molto rough: è sovente ubriaco, ha un debole per le prostitute, ama la pornografia, il cibo e, soprattutto, spende molti soldi.

FU IN QUESTO ROMANZO che Amis introdusse la figura dell’autore in quanto personaggio, scelta che segnalava la sua esigenza di prendere le distanze dalla vicenda di Self, ma che gli attirò l’accusa del padre, il quale lesse in questa «rottura delle regole» il tentativo di Martin di attirare l’attenzione verso il suo proprio Io. Non a caso, Amis, da sempre interessato alle strategie letterarie più che ai loro contenuti, definì Money un «voice novel».

Anche London Fields del 1989 è – come ha notato Nick Bentley – un romanzo «sullo scrivere romanzi», dove l’idea di fiction in senso lato ha a che fare con la formazione del nostro senso di identità, con la nostra posizione nel mondo: qui, uno scrittore americano di nome Samson Young, in cerca d’ispirazione, si trova di fronte la storia del suo romanzo, che dunque trascriverà in real time sulle orme di un trio composto da Nicola Six, disperata femme fatale, una «figura della fantasia maschile», che si fa complice del suo omicidio.

Fu questo il romanzo che rese celebre Martin Amis, tanto che qualche anno più tardi egli riuscì a ottenere – si dice – un anticipo di ben 500mila sterline per portare a termine quello che sarebbe diventato uno fra i suoi titoli più famosi, l’Informazione.

SPESSO ASSOCIATO A ALTRI suoi contemporanei – da Ian McEwan a Julian Barnes a Graham Swift – per la straordinaria capacità con cui ha raccontato gli ultimi due decenni del secolo scorso, e in particolare gli anni Ottanta, Amis ha avuto un grande impatto anche sulle generazioni successive, arrivando a influenzare scrittori molto lontani da lui, come Zadie Smith, che riconobbe come la lettura di London Fields fosse stata determinante nel concepire il suo Denti Bianchi.
Anche la saggistica di Martin Amis ha raccolto consensi entusiastici, per esempio da parte di Jeoff Dyer, che la apprezza più della sua narrativa, e di certo il genere memoir è quello più affine allo scrittore inglese, che si è più volte raccontato: l’ultima nelle pagine di La storia da dentro (Einaudi, pp. 684, euro 25,00), scritto con uno stile volutamente colloquiale, finalizzato a coinvolgere il lettore chiamandolo a una partecipazione attiva di quanto si è svolto nella vita, appena conclusa, di questo singolare scrittore inglese.