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Rosler, collage vietnamiti, il sangue e le trincee nei salotti borghesi

Rosler, collage vietnamiti, il sangue e le trincee nei salotti borghesiMartha Rosler, «Cleaning the Drapes», dalla serie «House Beautiful: Bringing the War Home», 1967-’72, New York, The Jewish Museum

Le immagini della guerra: Martha Rosler I fotomontaggi di «Bringing the War Home» (1967-’72): denuncia perturbante, brechtiana, dell’ideologia massmediatica frutto della guerra

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

Dal 1967 al 1972: questo l’arco di tempo in cui per protestare contro una delle guerre del XX secolo, la guerra del Vietnam, Martha Rosler (New York, 1943) realizza la serie di venti fotomontaggi Bringing the War Home (portare la guerra a casa). Sono gli anni che vedono la nascita di movimenti politici contro la guerra e anni in cui molti artisti decidono di realizzare opere di denuncia nei confronti dei meccanismi culturali che generano le guerre. Ma non è l’unica volta che la guerra è al centro della sua ricerca. Dalla guerra del Vietnam al colpo di stato cileno di Augusto Pinochet, al terrorismo americano e alle politiche adottate a sostegno dei regimi repressivi in America Latina sotto la presidenza di Ronald Reagan, all’invasione Usa dell’Afghanistan e agli orrori avvenuti nelle prigioni di Abu Ghraib, fino all’intervento in Iraq, la guerra e le sue conseguenze sono stati temi ricorrenti.

Rosler, artista, attivista e femminista, non ha dunque mai smesso di pensare che l’arte sia un atto politico. E ciò assume una sostanziale importanza proprio nei lavori indirizzati a mettere a fuoco le contraddizioni, le strategie di potere e l’arbitrarietà della comunicazione mass mediatica che riguardano la guerra.

In questo senso, si può affermare che quella di Rosler è stata una ricerca artistica che ha indagato i fenomeni sociali e culturali nello stesso modo con il quale ha interrogato i modi di vedere. Potere e rappresentazione, ideologia e cultura sono territori con molte relazioni. Le sue opere infatti pongono la domanda fondamentale di cosa e come vediamo, quando l’oggetto della visione è prevalentemente connesso con quanto è veicolato dall’informazione attraverso i media, da quelli a stampa fino alla radio e alla televisione. Nel caso delle narrazioni della guerra, tale aspetto diventa centrale a una interrogazione su quello che vediamo e arriviamo a sapere attraverso le notizie trasmesse.

Nella serie di venti fotomontaggi dal titolo Bringing the War Home Rosler rendeva dunque evidente, per la prima volta nel suo lavoro, una maturata consapevolezza: attraverso i fotomontaggi (collage poi rifotografati) l’orrore della guerra non è semplicemente raccontato ma reso una presenza che arriva nelle case e negli immaginari. Rosler realizza la giustapposizione di immagini che nella loro adiacenza svelano l’arbitrarietà delle informazioni e degli stati d’animo che comunicano: le immagini tratte da riviste tra le quali «Life» mostrano soldati (i marines americani) che, quasi senza preavviso, si introducono nei salotti, nelle stanze dei ragazzi, nei giardini delle case borghesi, le cui immagini sono invece perlopiù ritagliate da giornali di moda o arredamento dell’epoca, come ad esempio da «House Beautiful». Le signore eleganti che, in questi montaggi, aprono la tenda del loro salotto su un giardino desertificato dall’esplosione di una bomba, o che si mostrano felici e lusingate davanti a un camino sopra il quale al posto del bel quadro d’arredamento si è sostituita l’immagine di morti in guerra, diventano le protagoniste di fatti reali, ovvero di situazioni di conflitto e terrore, nello stesso tempo che queste sono trasmesse e veicolate dai canali della comunicazione. La guerra e la casa, l’orrore e la pace domestica entravano in contraddizione.

Tutta la serie venne da Rosler diffusa attraverso fogli volanti, distribuiti come fossero manifesti di una protesta da diffondere a largo raggio, tra la gente stessa informata dai programmi televisivi. Soltanto nel 1991, in concomitanza con l’inizio di una nuova guerra, quella del Golfo, Rosler decide di esporre in una galleria americana (da Simon Watson) i collage dedicati alla guerra del Vietnam. Il fotomontaggio era per Rosler, tra l’altro – memore ad esempio di Bertolt Brecht e del suo L’abicì della guerra –, il solo metodo possibile per denunciare, usando immagini note a chiunque, un conflitto ancora più profondo: quello che riguarda la contraddizione tra pratiche del terrore, guerra e apparente possibilità di rimanerne al di fuori. Il guardare una guerra in tv in che modo conferma che se ne resterà lontani? Come quelle immagini arriveranno a colpire, offendere o confermare gli immaginari? Come leggere la violenza e il potere attraverso le immagini? Il conflitto tra interni domestici e esterni dove si combatte, tra guerra raccontata dai media, come avvenne per la prima volta proprio con la guerra del Vietnam, e gente che segue in diretta i fatti, apre il problema della rappresentazione e della spettacolarizzazione della guerra.

La tipologia delle immagini che vengono usate nei fotomontaggi tuttavia cambia nel tempo e Rosler stessa ha notato, in più occasioni, come i ritagli da lei selezionati alla fine degli anni sessanta, durante la guerra del Vietnam, o in seguito, per altri casi, fossero in grado di mostrare modi diversi di raccontare ciò che concerne il conflitto e anche ciò che apparentemente ne resta al di fuori. Le signore, infatti, che si incontrano nei fotomontaggi di Rosler non sono signore qualsiasi ma prototipi di ambienti e stili di vita, sono rappresentate negli interni domestici mentre gli uomini combattono nei luoghi di guerra. Ciò, proprio negli anni dei movimenti contro la guerra, apre dunque anche la contraddizione su certezze stereotipate, che proprio le donne e i movimenti femministi portano nelle piazze, nei giornali, nel dibattito più radicale. Rosler radicalizzò la sua scelta politica nel femminismo proprio durante il Vietnam: la guerra, il patriarcato, la contiguità tra forze dominanti e potere sfidano le strategie di un modo di rappresentare tali soggetti che sono costruite su paradigmi culturali simili. Questo problema è continuamente affrontato da Rosler, per la quale, come tra l’altro avviene anche per altre artiste, tra le quali Nancy Spero, la guerra è sinonimo della perseveranza di condizioni culturali sul potere e non frutto di situazioni contingenti che si crede possano esaurirsi in brevi o meno brevi archi temporali. Essere attivista per Rosler è stata l’unica pratica possibile per restare su una differente trincea: quella da cui non smette di interrogare, con le sue opere, i paradigmi culturali che generano storicamente la reiterazione dei medesimi modelli di dominio, subordinazione e conflitto.

Non soltanto la guerra del Vietnam e questa serie di fotomontaggi hanno dunque raccontato l’illusione che le situazioni di conflitto riguardino solo particolari geografie del mondo. Per Rosler la sovrapposizione di immagini di guerra e di situazioni di apparente distanza dal conflitto poneva la questione fondamentale che ogni guerra, seppur in una lontana parte del mondo, è una guerra che ci riguarda.

Dopo il 2003, alla fine di una nuova guerra voluta dagli americani contro l’Iraq, Rosler pensa di riproporre lo stesso modo con il quale aveva dato immagine alla guerra che trent’anni prima aveva coinvolto l’est asiatico. Con la nuova serie di fotomontaggi, intitolata ancora una volta Bringing the War Home. House Beautiful. New Series, 2004, l’artista torna sulla questione della guerra per affermare non soltanto la sua brutalità ma la convinzione che l’adiacenza e la giustapposizione di immagini apparentemente incompatibili sveli la natura perturbante dell’orrore, quando questo si insinua in contesti che ne sono distanti. La casa e la guerra, la loro complicità, restano i termini da interrogare.

Nel 2006 Rosler arriva a lavorare sulla stessa natura del totalitarismo. Progetta un’installazione (esposta nel 2019 anche in Italia, a Milano, presso la Galleria Raffaella Cortese, nella mostra An American in 21st Century) all’interno del quale grandi pagine, di materiale trasparente, diventano stendardi sui quali si leggono frasi tratte dal libro di Hannah Arendt del 1951 Le origini del totalitarismo. Se il totalitarismo non è un episodio del passato ma lo stato di fatto che emerge da situazioni e strategie culturali e di potere, la guerra, che ne è spesso l’esito, permane nella storia come una costante, tra circostanze che la rendono talvolta coscienza pubblica e condivisa di conflitti in atto, ma in altri casi lo stato di una rimozione, ovvero di una condizione non espressa, che attende di essere costantemente interrogata, come Rosler non ha mai cessato di fare.

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