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Marta Martu Palvarini, più di un gioco

Marta Martu Palvarini, più di un gioco

Intervista L'attivista su come superare l'impostazione patriarcale che dai giochi arriva fino ai videogames

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 8 gennaio 2022

Marta «Martu» Palvarini si è formata nei movimenti anticapitalisti, è attivista trans specializzata in transfemminismi e questioni di genere ed è cofondatrice di Asterisco Edizioni. Si occupa di editing, revisione alle localizzazioni e sensitivity reading, cioè cerca nei testi (prima della loro pubblicazione) affermazioni politicamente offensive o denigratorie delle minoranze in modo che possano essere corrette.

Perché esiste una questione di genere nelle comunità legate ai giochi? I cosiddetti wargame, i giochi da tavolo che simulano battaglie tra eserciti, e poi i giochi di ruolo come il celebre «Dungeons & Dragons» e poi anche i videogiochi sono stati per anni raccontati come attività destinate a un pubblico prettamente maschile.
Partirei dall’articolo The First Female Gamers di Jon Peterson che abbiamo tradotto su Fuori dal dungeon e che spiega molto bene come si vada a formare l’attuale nicchia ludica del settore degli wargame e giochi di ruolo e quindi videogiochi, perché tutto è alla fine un unico filone interconnesso e collegato. Con alcune eccezioni, come nel caso del gioco di ruolo che venga dalla tradizione dell’improvvisazione teatrale, il gioco di ruolo viene dai wargame. Si simulano battaglie con piccoli modellini in scala, inizialmente nelle accademie militari alla fine del diciottesimo secolo come addestramento alla tattica militare. E ovviamente gli eserciti sono basati sul predominio maschile e collaborano sia alla riproduzione delle strutture di genere patriarcali sia allo sviluppo del capitalismo. Alla fine del diciannovesimo secolo i wargame erano invece diventati un passatempo borghese nei salotti dei nobiluomini. E sottolineo «uomini», anche se c’era già una rara presenza femminile. Dopo la seconda guerra mondiale i wargame diventano sempre più prodotti del capitale coinvolti in una produzione di massa e rivolti a una classe medio-alta europea e statunitense, e si svilupparono, attraverso un gioco chiamato Chainmail, in Dungeons & Dragons. È stato il primo gioco di ruolo cartaceo mainstream ed era codificato con regole che derivavano dai wargame, con il passaggio dal controllo di un esercito più o meno grande a quello di un solo personaggio che si sviluppa nel tempo. Quindi, ecco come il gioco di ruolo si è sviluppato da un ambiente quasi unicamente maschile ed è stato indirizzato a un pubblico tradizionalmente solo maschile.

Come si arriva ai videogiochi?
Le prime produzioni videoludiche riprendevano spesso le strutture del gioco di ruolo e di Dungeons & Dragons, i suoi immaginari, le sue regole. E parlavano sempre allo stesso pubblico, un mondo patriarcale all’interno di un mercato capitalista. Alcuni dei primi videogiochi come Colossal Cave Adventure e la serie di Zork sono quasi versioni digitali di Dungeons & Dragons, altri videogiochi avevano esplicitamente come obiettivo portare su schermo, fedelmente, le regole e i marchi dei giochi di ruolo cartacei. Un videogioco come Baldur’s Gate è un modo per giocare a Dungeons & Dragons senza bisogno di altre persone. Ma posso vedere l’eredità del gioco da tavolo in tutti i videogiochi che hanno come obiettivo la sconfitta di un nemico: sono versioni automatizzate di quello che al tavolo accade invece con due persone.

Negli ultimi anni anche le grandi aziende si sono mostrate sempre più attente alla diversità (di etnia, di orientamento sessuale, di identità di genere) dei loro personaggi.
La rappresentazione in quanto tale non è così utile a portare cambiamenti strutturali. È utile creare immaginari divergenti, ma dipende da chi scrive queste cose. L’autorialità, che è un concetto che andrebbe decostruito sul lungo periodo, in questa fase può servire come parte del processo rivoluzionario. Se vai a vedere chi scrive i giochi troverai elenchi di uomini bianchi, eterosessuali e cisgenere, e questo conta più della rappresentazione, del fatto che tu abbia messo un personaggio gay o trans magari scritto malissimo come in The Last of Us Parte 2 e depotenziato, privato del contesto di oppressione in cui queste persone vivono e delle loro esperienze, trasformato in una skin (un modello tridimensionale con cui vestire e personalizzare un certo personaggio in un videogioco, ndr). Non è solo una questione di identità (di genere, di etnia…, ma di visione politica, di diversità delle voci e delle visioni. Ci siamo schiacciate su un modello vertenziale statunitense limitato alla rappresentazione e si ragiona sempre di aspetti superficiali, ma sono le meccaniche a influenzare davvero l’esperienza di gioco.

Continuano insomma a venderci nuove versioni di Monopoli.
Ci stanno rivendendo Monopoli con una skin transgender e punk. Il gioco sembra essersi infilato in un binario cieco da cui si fa fatica ad uscire. Descrivi i corpi attraverso numeri e pensi che se vedi il codice allora puoi controllarlo, ottimizzarlo. Ma non pensi ad hackerarlo. Un gioco in cui non vedi che un’arma fa più danni di un altra, in cui manca questo strato di statistiche, non viene neanche visto come un gioco. Vale lo stesso per l’alea, il caso, il tiro di dadi: siamo così abituate a vedere usati i dadi nei giochi (o qualcosa di equivalente a un tiro di dadi, magari simulato in un videogioco) che la loro assenza provoca subito sospetti. E anche questo fa parte di un immaginario bellico, si ricollega all’immagine del generale che sceglie la mossa successiva in base a probabilità di successo calcolabili e calcolate. Mi sembra che sia necessario rompere del tutto queste strutture di gioco.

E come si realizza questa rottura?
Quello che serve è un cambiamento nella produzione, una produzione che possa uscire dal sistema capitalista o almeno ci provi, nella consapevolezza che ci saranno sempre contraddizioni nei tentativi di stare fuori dal mercato. Non parlo di inclusività all’interno delle aziende mainstream, ma della necessità di riappropriarsi di certe narrazioni e della possibilità di produrre giochi diversi, con altri immaginari creati da persone finora escluse, altre storie e altre meccaniche. Dobbiamo riprenderci la produzione.

Si dice sempre che bisogna aprire gioco e videogioco a un pubblico più ampio e più vario, ma mi sembra allora che quello che si debba aprire sia il processo creativo e produttivo.
È un discorso interessantissimo secondo me ed è già molto facile nel mondo dell’analogico. Il gioco di ruolo ha un vantaggio: è facilmente hackerabile. Lo puoi creare, modificare, reinventare. Certo, puoi farlo più o meno bene. Ma con un foglio di carta puoi scrivere un gioco di ruolo, non ti serve altro. E così facendo puoi influenzare la tua comunità, anche se magari è una comunità piccola. Sono quasi più le persone che i giochi li fanno che quelle che li giocano e basta. Per i videogiochi può essere più difficile, servirebbero comunità capaci di costruire strumenti di sviluppo veramente approcciabili, liberi e completi. D’altra parte la digitalizzazione del videogioco facilita invece la distribuzione e la creazione di queste comunità, anche se mi sembra che sia maggiore la resistenza che l’innovazione incontra, forse proprio per la forza di queste comunità e soprattutto delle comunità legate all’estrema destra. Ma io credo molto nel potere delle comunità, in ambito ludico, della loro capacità di organizzarsi, di inventare strutture e opere che vanno a rompere con il sistema. Ma, appunto, serve organizzarsi.

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