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«Leggo… la grande assenza delle donne dall’architettura non come una mancanza da colmare, né come diversità da esaltare, bensì come espressione di una impossibilità di aderire a una prassi progettuale per lei estranea … Per me è prioritario prendere coscienza del processo attraverso cui elaboro il progetto, in un ascolto attento dell’altro, in rapporto con l’altro. I rapporti danno coscienza dell’umanità, il femminismo è un incontro di coscienze verso una nuova consapevolezza, un diverso senso della storia».
Con queste parole si esprimeva nel 1982 Marta Lonzi, in una intervista di poco successiva alla pubblicazione del suo libro L’architetto fuori di sé: un libro di architettura decisamente atipico presto intercettato da Bruno Zevi che sulle pagine dell’Espresso lo definisce «autobiografia emotiva» e «pamphlet a tesi». Alla categoria del pamphlet in effetti è ascrivibile, nell’accezione di libro polemico; ed è scritto in prima persona dall’autrice, che così si presenta nella scarna nota biografica: «Nata a Firenze il 13 aprile 1938, laureata in Architettura all’Università di Firenze nel 1963, svolge la sua professione a Roma. Dal 1970 fa parte del gruppo di Rivolta Femminile». Entro questi termini si dipana gran parte della sua vita, conclusa il 9 aprile del 2008.
Trasferitasi a Roma poco dopo la laurea – conseguita sotto la guida di Riccardo Morandi e Ludovico Quaroni – Marta, fresca di matrimonio con Giancarlo Mibelli, imprenditore del legno, cerca di conciliare la nuova dimensione di madre con quella di architetto.
Tramite la sorella Carla Lonzi, critica d’arte, entra in contatto con gli artisti di quel periodo: Pinot Gallizio, Carla Accardi, Pietro Consagra, Mario Nigro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Luciano Fabro. Con alcuni di questi stabilisce rapporti intensi personali e di collaborazione. Dal ’67 al ’74 è assistente alla cattedra di Composizione architettonica, con Alberto Samonà e Ludovico Quaroni, all’Università di Roma. Dopo il congedo dalla critica d’arte da parte di Carla e l’avvio di Rivolta femminile, anche Marta partecipa ai gruppi di autocoscienza inaugurati a Roma nel 1970 e alla successiva creazione della omonima casa editrice a Milano nel 1971. L’adesione al gruppo le consente l’elaborazione di una peculiare visione del processo creativo. In Rivolta e nelle pratiche di autocoscienza, che riconsiderano anche gran parte dell’elaborazione culturale, Marta trova la chiave di lettura di quel disagio che avvertiva come «circoscritto e personale». Nell’arco di pochi anni si delinea una cesura nel gruppo: tra chi, come Carla Lonzi, rifiuterà la produzione culturale in quanto irrimediabilmente segnata dall’impronta patriarcale; e chi invece, come Accardi e, in modo diverso, la stessa Marta, continuerà la ricerca di una strada che, nonostante tutto, consentisse di pensarsi – e di agire – come soggetto creativo. Per Marta è chiaro che solo accogliendo consapevolmente la dimensione soggettiva nel progetto ne viene garantita l’autenticità, cioè la validità. Una distanza abissale con la prassi didattica universitaria.
Abbandona così l’università e intraprende un percorso di ricerca sul processo «reale e non sublimato» che le varrà inviti per conferenze, seminari di sperimentazione e corsi di progettazione soprattutto all’estero: Strasburgo, Berlino, Malaga, Toledo, La Coruña.

LA MILITANZA
Anche dopo la prematura scomparsa, nel 1982, della sorella Carla, Marta continua insieme alle altre componenti del gruppo milanese a occuparsi della casa editrice (Scritti di Rivolta femminile), presentandone l’attività in diverse fiere internazionali dell’editoria femminista. La militanza è scandita dai contributi pubblicati negli anni ’70, ma soprattutto dalla attività di diffusione e difesa del pensiero di Carla, con la pubblicazione di testi postumi e nuovi progetti di valorizzazione.

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LA PRATICA PROGETTUALE E LA PROFESSIONE
Nei suoi scritti come nella pratica progettuale emerge l’orientamento verso un processo creativo non distruttivo nei confronti di ciò che preesiste – centro storico, periferia o natura – come emerge dai progetti elaborati per diverse occasioni concorsuali, tra cui il Concorso per la Manifattura Tabacchi a Bologna (1984), quello per il riassetto di piazzale Matteotti a Vicenza (1986), il Concorso Iba Lützowplatz a Berlino (1987), quello per la sistemazione del Borghetto Flaminio a Roma (1994-95). Il tema delle periferie urbane, in particolare di quelle romane, sarà oggetto di continui approfondimenti (anche su il manifesto: Roma 2000: una città senza periferia,  17 giugno 1998) e sfocerà quindi nel progetto elaborato per Pietralata poi fatto proprio dalle associazioni di base del quartiere pubblicato infine in Roma è da salvare. Pietralata New York Istanbul, 1999. Il punto di approdo di tante esperienze e ricerche è il libro Autenticità e progetto pubblicato da Jaca Book nel 2006.
La progettazione si traduce in edifici attenti al contesto ambientale, come la villa a Fetovaia (Elba, 1969) e lo stabilimento industriale nella piana del Campidanu (1973-74), o in realizzazioni conseguite con minimi costi ambientali, come la villa a Sasso Marconi (1988-93). Negli interventi di ristrutturazione spicca per l’originale risoluzione del linguaggio plastico e di funzionalità quello relativo al coronamento dell’immobile di Giulio ed Enrico Gra, piazzale Belle Arti, Roma (1972-73), con l’utilizzo di diaframmi trasparenti dispiegati con grande maestria – setti di legno e vetro, sovente curvati al limite delle possibilità strutturali, a creare ambienti visivamente permeabili, zone di relativa privatezza, senza spezzare il flusso delle relazioni e della vita. Una soluzione che diventa la sua cifra stilistica.
La sua committenza si colloca nel milieu della borghesia progressista di quegli anni, tra impegno e vocazione artistica: quindi gli interventi nella sede della Fondazione Basso, i progetti per Carla Accardi a Roma, Lydia Sansoni a Venezia e a Milano, per Giorgio e Rosaria Mondino a Torino, i negozi pionieri de La città del sole… Nel 1986 inizia a produrre col marchio Antithesis mobili, lampade e oggetti su suo disegno e apre a Roma l’omonima galleria.
«Oggi, l’architetto è bloccato a uno stadio in cui egli è tutt’uno con ciò che elabora. Avendo fatto decadere il rapporto soggettivo, quindi consapevole, tra sé e l’oggetto, risiede immanente al progetto che presenta in termini oggettivi credendoli, illusoriamente, veritieri. Da questa spirale tautologica del progettare nasce il decadimento del processo e, quindi, dell’oggetto: non più architettura, ma cubatura; non più città a dimensione umana, ma periferia, cioè agglomerati privi di anima; non più integrità del territorio, ma frattura» (Autenticità e progetto, 2006).
A oltre trentacinque anni dall’avvio dello scandaglio dell’autocoscienza, Marta utilizza il lessico femminista come cartina al tornasole per rileggere la storia dell’architettura alla ricerca di connotati etici. Ma si tratta di un processo espansivo dal soggetto alle sue pratiche che interessano ora l’intero corpo sociale.

L’ARCHIVIO
L’archivio Marta Lonzi è depositato dal 2017 presso la Fondazione Elvira Badaracco di Milano per volontà della famiglia. L’archivio è prevalentemente legato allo svolgimento della sua professione di architetto, integrata da una intensa attività di conferenziere in Italia e all’estero, ma documenta anche la rete di relazioni con artisti del tempo; e ovviamente con figure del femminismo, entro e fuori il gruppo di Rivolta. Particolarmente interessanti, tra la corrispondenza e la documentazione raccolta, le tracce di una significativa rete europea «di genere» nell’ambito dell’architettura e dell’ambiente.