A fine ottobre è uscito il nuovo album di Marta Del Grandi, il secondo da quando è stata accolta nella grande famiglia londinese dell’etichetta Fire Records. Si intitola Selva e, dopo il debutto ufficiale Until We Fossilize nel 2021, marca un salto in avanti nel percorso della cantautrice milanese. «A livello musicale è stata una sfida, perché sentivo le pressioni legate al secondo disco, su che tipo di direzione musicale avrei preso» racconta Marta Del Grandi. «Poi il mio approccio alla musica è rimasto molto spontaneo, non penso a che sound voglio avere o a che genere voglio fare. Però sicuramente ho lavorato molto sulla scrittura: in passato i miei testi erano ricchi di metafore, di immagini, tratte per esempio dal mondo naturale, o di rimandi letterari, come se mi mettessi in incognito. Mentre in questo album ho cercato di essere più diretta, più letterale nella descrizione dei miei pensieri, dei miei sentimenti, delle mie esperienze». Il risultato sono dodici tracce eleganti, ricche, sperimentali, fatte di testi intimi, tanto enigmatici quanto semplici, e di arrangiamenti curati, bilanciati e innovativi, di una densità timbrica che si muove dai synth di Mata Hari fino ai fiati pulitissimi di Eye of the Day.

«IO SCRIVO in due modi: o cantando con la chitarra o con un software, quindi inserendo da subito synth, beat elettronici, suoni campionati» spiega la cantautrice. «Perciò alcuni brani erano più scarni, altri già molto arrangiati. La fase successiva è stata la preproduzione in una casetta in mezzo al bosco, in Belgio, insieme a Bert Vliegen. Poi abbiamo completato le registrazioni nello studio Ledeberg a Gent con Peter Desmedt e tre musicisti per batteria, basso e fiati. Sono tutte persone che conosco bene, quindi è stato facile confrontarsi, accettare i consigli, l’ho trovato molto naturale».Ho vissuto tanto all’estero, per cui mi identifico con un’identità cosmopolita, europea, da esploratrice. Mi affascinano il cantautorato e le grandi interpreti italiane
Non a caso Marta Del Grandi viene guardata come una delle artiste italiane meno «italiane» e più rivolte a un universo internazionale, e non solo perché canta in inglese. «Mi fa molto ridere questa definizione, però alla fine ha senso» commenta. «Ho vissuto tanto all’estero, per cui mi identifico con un’identità cosmopolita, europea, di esploratrice del mondo». Nata ad Abbiategrasso in provincia di Milano, Marta Del Grandi ha vissuto cinque anni a Gent, due anni e mezzo a Katmandu, in Nepal, sei mesi in Cina e tre anni fa è tornata a Milano. Della tradizione orientale, in realtà, non sente di aver assorbito molto: «Ho ascoltato tanto, studiato, letto, ho fatto anche una tesi per il conservatorio sui raga indiani, ma mi sono sempre sentita un’entità aliena in questi contesti, per cui integrare queste sonorità nella mia musica mi è sempre sembrato artificiale» spiega. «Molti dei miei riferimenti, come Fiona Apple, Big Thief, Dirty Projector, vengono dal mondo anglosassone, che purtroppo nel 2023 rimane il mondo predominante nel mercato musicale. Però ho ascoltato anche moltissima musica italiana, dai grandi cantautori come Tenco e Battisti, alle grandi interpreti degli anni ’60-’70 come Mina, Ornella Vanoni, Loredana Berté, Patty Pravo. Anzi, se possibile colleziono i vinili di questa discografia».

DA QUESTI riferimenti, da quest’esperienza multiculturale, ma anche profondamente europea, deriva un genere che si può ascrivere all’alternative e si nutre di influenze, dal folk fino alla musica sperimentale. È un genere che altrove in Europa ha il suo seguito e in Italia, invece, fatica. «In Italia non esistono altri generi che non siano l’urban e il cosiddetto indie italiano. Non c’è molto spazio per le contaminazioni» commenta Marta Del Grandi. «Torno da alcuni concerti in Belgio e in Francia e lì senti che una possibilità che le cose siano diverse c’è. Dunque sta a noi risollevare la situazione». Il tour la vede protagonista stasera a Marghera (Ve) con tappe nei giorni successivi a Torino, Bologna, Roma e Milano.