Cultura

Mart, un museo preda del revisionismo culturale

Mart, un museo preda del revisionismo culturaleParticolare del Mart di Rovereto ideato da Mario Botta

Mostre Un'esposizione a Rovereto chiama in campo Caravaggio ma l’artista non c’è. C’è solo l’ideologia sgarbiana che si è impadronita di una istituzione pubblica

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 febbraio 2021

Nella mostra Caravaggio, il contemporaneo, in corso al Mart di Rovereto, per chi non lo sapesse, Caravaggio non c’è. C’è stato, per un mese circa, proveniente dalla chiesa di Santa Lucia alla Badia a Siracusa, il Seppellimento di Santa Lucia. Ora, della magnifica tela c’è una copia digitale. Anzi ben due, ce ne sono: identiche e poste una in fronte all’altra. Già a dicembre, infatti, il Caravaggio se ne è tornato a casa, in Sicilia, dove il suo trasferimento era stato accompagnato da non poche polemiche. Ma non è di questo che si intende qui parlare.
La rassegna non è, come di solito accade, «curata da». La mostra nasce «da un’ idea di», come si diceva in occasione del trailer di una nota serie televisiva. Colui che ha elaborato l’idea dalla quale ha preso forma la mostra è Vittorio Sgarbi, neopresidente del Mart da quando la provincia di Trento è passata a guida leghista, nonché vera guida sul piano scientifico e culturale dell’istituzione dopo la nomina, fortemente voluta da Sgarbi e ufficializzata la scorsa estate dalla Giunta provinciale, dell’ex direttore amministrativo a direttore del museo.

LA FUNZIONE DI DIRETTORE era sempre stata precedentemente ricoperta da storici dell’arte, i quali si facevano carico delle scelte curatoriali del museo. Ora le cose non stanno più così. La funzione di guida è, di fatto, nelle mani del presidente. E in effetti sul Mart – che in questi giorni, oltre alla mostra pseudocaraveggesca, ospita anche Giovanni Boldini e una tristissima esposizione basata sulla pur notevole collezione del museo trentino su «l’invenzione del moderno» – sembra aleggiare un clima di revisionismo culturale. Il Mart, che pur tra alti e bassi è stato comunque soprattutto sotto la guida di Gabriella Belli, di Cristiana Collu e Gianfranco Marianello, uno dei pochi spazi di riflessione sul contemporaneo dentro un nord-est per molto versi insensibile (Venezia, come noto, fa discorso a sé) alle dinamiche di sviluppo della ricerca in ambito artistico, sembra oggi lontano da quel tipo riflessione.

QUELLA DI OGGI è un’atmosfera profondamente segnata da quell’idea di ritorno ai valori dell’arte «bella» e comunque di un’arte che deve sempre essere letta dentro un paradigma continuista rispetto alle sue espressioni classiche su cui Sgarbi da anni insiste.
Un ritorno che si sposa anche con una rinnovata e mesta attenzione alla dimensione del locale, in linea con le riscoperte delle identità che forse fanno gongolare gli amministratori leghisti e che creano immediatamente una patina di fioca provincialità su una realtà che, invece, dovrebbe costituire un ponte privo di timidezze nei confronti di una dimensione internazionale da cui l’Italia rischia di essere sempre più marginalizzata.
Ma che cosa c’è nella mostra? Innanzitutto, c’è Sgarbi. In apertura, infatti, su un grande schermo spiega l’idea dalla quale nasce l’esposizione. Un’idea che ha come suo assioma fondativo una delle sconcertanti banalità che il neopresidente ripete da anni volendo far credere che si tratti di un’idea non solo originale, ma persino scandalosa: ovvero che tutta l’arte, se è davvero arte, è arte contemporanea.
A partire da questo assioma – che da un lato è banalmente vero, dall’altro nasconde una ideologia niente affatto innocua circa lo statuto della pratica artistica – deriva l’intuizione di associare a Caravaggio Burri e Pasolini. Un’idea che potrebbe anche avere un suo senso se fosse accompagnata da una autentica ricerca in grado di andare al di là della mera suggestione.

INVECE L’INTUIZIONE si risolve di fatto in una triste giustapposizione, in un banale mettere accanto alle due riproduzioni digitali caravaggesche, una Maddalena di dubbia attribuzione, alcune opere di Burri non certo tra le più significative, foto del Cretto di Gibellina, le immagini del corpo martoriato di Pasolini associate a loro volta ad alcuni lavori di Nicola Verlato, artista veneto contemporaneo caro a Sgarbi proprio per quel richiamo ai valori di una pittura che, per molti versi, richiama il ritorno all’ordine del Novecento di Sarfatti. Pittore, Verlato, con il quale Sgarbi da tempo lavora, che non da ieri sostiene e che però appare lontano sia dalla radicalità esistenziale come anche dalla carnalità delle rappresentazioni di Caravaggio.
Oltre a ciò, un dipinto di Nitsch di proprietà del Mart (anche questo accostato agli altri in termini di superficiale suggestione), un paio di notevoli dipinti di Cagnaccio di San Pietro e uno, a sua volta molto intenso e significativo, di Margherita Manzelli.

AD ACCOMPAGNARE la mostra, presentati ciascuno come «focus di approfondimento», due itinerari ad essa connessi e tuttavia anche autonomi. Uno dedicato a Nicola Samorì, indubbiamente una delle voci più interessanti del panorama artistico italiano contemporaneo, anch’egli legato a una riflessione intorno alle forme classiche e al loro sgretolamento, e uno dedicato a Luciano Ventrone, pittore iperrealista da tempo sostenuto da Sgarbi e del tutto coerente con la sua ideologia estetica.
Al di là del giudizio sulla rassegna, ciò che è necessario sottolineare è il contesto ideologico e di politica culturale che la pervade. Un contesto che sarebbe bene che il mondo della cultura non consegnasse a uno snobistico silenzio, considerandolo in termini di mera operazione comunicativa o di marketing, magari finalizzata a d affermare alcuni prodotti artistici accostandoli ad opere di conclamato e storicizzato valore.

DIETRO A UNA TALE OPERAZIONE, infatti, c’è anche una vera e propria ideologia, una specifica idea della cultura e una peculiare concezione del ruolo delle istituzioni culturali pubbliche. Un’ideologia, un’idea e una concezione che non possono, come spesso accade, essere altezzosamente ignorate. Ignorarle, infatti, rischia di rafforzarne il ruolo di modello di una politica culturale che ha abdicato a quella funzione critica e di conoscenza che è, invece, ciò che rende tale la cultura.

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