La copertina in bianco e nero a bassissimo rilievo del libro commemorativo di una mostra – ma non è una vera e propria mostra, bisognerebbe parlare di un prestito a lungo termine che si terrà per il prossimo decennio ai Musei Capitolini – è piuttosto misteriosa. Si tratta di un volume di medie dimensioni con un titolo non del tutto chiaro: I colori dell’antico Marmi Santarelli ai Musei Capitolini (Treccani, pp. 220, e 33,25). Ma se si legge la pagina introduttiva firmata dal Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, si capisce quale sia lo scopo di questa esposizione sistemata in due salette antistanti il Medagliere capitolino. Gli ambienti non sono di particolare interesse ma si trovano accanto ad una spettacolare veduta dell’Urbe.

I marmi degli antichi romani erano spesso colorati e per quanto questo gusto non sia oggi così popolare come lo fu nell’antica Roma e molto dopo, tra il Barocco e l’Ottocento, non lo si può dire una scoperta d’oggi. Pochi furono, dopo la dopo la pubblicazione nel 1845 del volume di Faustino Corsi, Delle Pietre Antiche, gli studiosi di queste meravigliose manifestazioni della natura, fino al 1971 quando Raniero Gnoli pubblica uno dei più bei libri di storia dell’arte stampati in Italia in epoche recenti, Marmora Romana. Quest’opera straordinaria è composta da un esame approfondito da diversi punti di vista di quelle pietre amate e della loro storia lungo diversi secoli. Nel contempo Gnoli affronta questo studio non solo da un punto di vista scientifico ma anche storico, e a mio modo di vedere, anzi di sentire, poetico, spiegando sasso per sasso la loro storia e quella dei loro nomi, espressione di un estro molto particolare durato per generazioni di lapicidi che si trasmisero il mestiere di padre in figlio, di secolo in secolo. Infatti molti dei pezzi oggi esposti a Roma potrebbero essere datati e talvolta lo sono stati se esaminati anche da quel punto di vista – non dico come opere d’arte ma certamente come manufatti degni spesso d’ammirazione anche per la loro rarità.

Raniero Gnoli, foto di Massimo Listri

Il volume di questa rassegna è composto da sei introduzioni e da una serie di saggi di grande interesse e spesso assai originali ma non sempre di facile comprensione al punto che non so se sia giusto definirlo un vero e proprio catalogo. A dire il vero se si esaminano le magnifiche fotografie (tutte veramente di grande forza, che avrebbero soddisfatto persino la semplificazione della grande idea di Bernard Berenson sui valori tattili di certe opere d’arte) viene a mancare una spiegazione dei nomi di questi straordinari esemplari rocciosi. Ci si limita a fornire le dimensioni e non si parla dell’origine se non con un’ubicazione spesso seguita, com’è inevitabile, da un segno d’interrogazione.

Dalla pagina 91 alla 141 si illustra, a colori, una serie straordinaria di marmi che assomigliano molto agli esemplari a suo tempo facenti parte della collezione di Raniero Gnoli, venduta però tanti anni fa a Mario Tazzoli (1921-’90), famoso gallerista torinese, collezionista e mercante d’arte di particolare eleganza.

La collezione di Gnoli non è mai stata uguagliata e com’egli stesso fa notare in questo volume nell’intervista concessa a Paola Santarelli: «Peccato che questa raccolta dopo la morte di Tazzoli è andata dispersa. Avevo moltissime mattonelle anche piuttosto rare, almeno 150» (esisteva anche un catalogo manoscritto ma senza fotografie, solo con piccoli disegni in cui si specificavano le provenienze).

La grande importanza di quanto aveva raccolto Gnoli era, com’egli stesso osserva, perché formata in parte da mattonelle antiche. Così sembrano infatti alcuni esemplari illustrati qui oggi tra i Marmi Santarelli, che appaiono appunto essere stati impiegati come mattonelle. È utile dare qui alcuni esempi che spiegano quanto Gnoli riferiva: a pagina 104 quella in occhio di pavone rosso, alla 109 quella di palombino di forma esagonale, a pagina 111 quella in serpentino o ancora a pagina 112 quella in breccia di Aleppo minuta di forma romboidale, quella sempre in breccia di Aleppo quadrata a pagina 116 o quella triangolare in africano a pagina 117.

La collezione Gnoli comprendeva solo frammenti antichi, anche quando non si trattava di mattonelle, e ciò conseguiva un insieme assai più avvincente, incomparabilmente meglio riuscito dei campionari dell’Ottocento, tutti tagliati in pezzetti delle stesse dimensioni, tutti lucidati nella stessa epoca e nello stesso modo: ciò procura a questi insiemi un che di meccanico, tedioso, quasi si trattasse di piccoli cadaveri petrosi. La collezione di Gnoli era invece una scelta personale fatta dal migliore conoscitore dell’epoca in modo che l’una completasse l’altra e facesse capire il gusto della forma contrastata ai colori e alle dimensioni dagli antichi.

Nella presente occasione si includono sia il campionario Santarelli sia quello capitolino, ambedue ottocenteschi, conservati, e questo è bene, nei loro mobili del XIX secolo.