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Mark Stewart, il gigante

Mark Stewart, il giganteMark Stewart

Ricordi/La scomparsa del cantante e leader del pop group, aveva 62 anni Capace di segnare con sua band un momento di svolta nel rock di fine anni Settanta, è stato tra gli artisti inglesi più impegnati politicamente. «C'è l'arroganza del potere e quello che abbiamo preso dal punk è stato il potere dell'arroganza»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 maggio 2023

«C’è l’arroganza del potere e quello che abbiamo preso dal punk è stato il potere dell’arroganza», così Mark Stewart in un’intervista spiegava la sfacciataggine creativa che animava il Pop Group e che costituiva la forza dirompente alla base di una formazione che riuscì a marcare un momento di svolta nel rock alla fine degli anni Settanta. Mark Stewart, inglese originario di Bristol, è morto a 62 anni lo scorso 21 aprile. Lo ha comunicato la sua casa discografica Mute non dando ulteriori particolari sulla sua scomparsa. «Conoscere Mark, lavorare con lui, ridere con lui e pensare con lui era un’esperienza come nessun’altra – recita il comunicato dell’etichetta che ne ha ricordato anche l’impegno politico -. La sua presenza determinata e carismatica era accompagnata da una natura sensibile, calorosa, curiosa, intelligente ed esilarante. Era sempre, espressamente, dalla parte degli oppressi e faceva tutto il possibile per assicurare che le persone fossero trattate correttamente. Metteva in discussione ogni cosa e non si preoccupava solo dei più deboli, era intenzionato a far sì che tutti avessero una voce e che tutti avessero una possibilità».

OGGETTO DI CULTO
La sua storia musicale iniziò nel 1977 quando nella città portuale inglese, ai tempi la periferia del mondo musicale britannico, fondò il Pop Group con gli amici John Waddington e Simon Underwood a cui si unirono poco dopo Gareth Sager e Bruce Smith. Debuttano dal vivo nella loro città natale e una fanzine locale li presentò come «un gigante circondato da quattro nani». Stewart si faceva notare più per i suoi due metri di altezza che per altre doti. Eppure nel fermento di un mondo musicale in cui l’energia e la rivoluzione del punk erano state così dirompenti da scardinare ogni schema, il Pop Group, che era tutto fuorché un gruppo pop, conquistò con l’originalità delle performance le fantasie di chi era alla ricerca della «next big thing».
Nel settembre del 1978 l’allampanato Mark Stewart, con un look più alla Humphrey Bogart in Casablanca che alla Johnny Rotten, comparve sulla copertina di uno dei più importanti settimanali musicali inglesi, NME. Il Pop Goup non aveva pubblicato ancora un album. L’esordio arrivò nell’aprile dell’anno dopo, cripticamente intitolato Y e accompagnato da una copertina con uno scatto del celebre fotoreporter Don McCullin che raffigurava una primitiva tribù africana. La musica che conteneva il disco sfuggiva a ogni definizione. Era senz’altro punk nell’approccio feroce e nell’assoluta determinazione di non rispettare le regole, ma era prodotto da un musicista dub reggae, Dennis «Blackbeard» Bovell, e incorporava elementi di free jazz, funk, tribalismo, psichedelia e rumorismo, facendo pensare a uno strampalato incontro tra i nativi della copertina, Captain Beefheart, Sly and the Family Stone, i Funkadelic e gli Stooges. Un vaudeville di assurdismo musicale che non ebbe alcun successo commerciale, ma che divenne inevitabilmente un oggetto di culto. E come accadde per diversi album di quel periodo che traevano la loro ispirazione dall’energia del punk ricollocandola su altre coordinate cartesiane, divenne un capostipite di quello che verrà definito, in mancanza di una definizione più calzante, «post punk».
Nel corso degli anni Y ha trovato sempre più estimatori. Rimane a più di 40 anni di distanza una pietra miliare di avanguardia capace di lasciare una traccia seguita poi da altri artisti. Nick Cave citerà il Pop Group come una delle principali ispirazioni, ma anche band come Minutemen, Primal Scream e Sonic Youth matureranno evidenti debiti nei confronti dei cinque. Bono li ricorda nella sua biografia come i pionieri della scena musicale di Bristol. Non a caso la band più importante di quel movimento, i Massive Attack, sembra proprio nascere dal rumoroso parto della traccia conclusiva di Y, un brano intitolato 3:38. È un titolo che richiama John Cage, ma il pezzo ha un groove che anticipa i campionamenti che scandiranno Unfinished Sympathy, il primo grande successo della band di Robert Del Naja e Grant Marshall.

CALA IL SIPARIO
Nel 1980 il Pop Group pubblica il secondo lavoro, How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, che includeva una collaborazione con i pionieri dell’hip hop Last Poets e in cui il messaggio politico, critico nei confronti della società capitalistica neoimperialista, si faceva sempre più diretto ed esplicito. Peraltro già anticipato da uno dei loro pezzi più noti We Are All Prostitutes, singolo che verrà incluso solo anni dopo, nel 2016, nella ristampa dell’album: «Il capitalismo è la più barbarica di tutte le religioni», recitava il testo della canzone.
L’approccio dell’album era nettamente più accessibile, sulla base di ritmi funk quasi radiofonici la band sembrava indirizzata verso una forma di ortodossia e sembrava aprirsi anche a un possibile successo commerciale. Ma sarebbe stato tutto troppo prevedibile, e dopo un concerto a favore della campagna per il disarmo nucleare, il quintetto decise di far calare il sipario. Stewart insieme a Smith e Waddington si unì brevemente al collettivo dub New Age Steppers per poi proseguire come solista con l’esordio, datato 1983, Learning to Cope with Cowardice (firmato come Mark Stewart and the Mafia).
Il nuovo percorso lo portò verso una miscela di ritmi influenzati da elettronica, dub reggae, industrial rock e dal nascente movimento hip hop. La sua visione politica si faceva sempre più critica e sempre più radicale, con tendenze decisamente cospirazioniste.
Seguirono otto album solisti, innumerevoli collaborazioni (Ryuichi Sakamoto, Trent Reznor, Tricky, Primal Scream, Massive Attack…) e tanti attestati di stima da nuove generazioni di musicisti. Nel 2010, sulla scorta di questi riconoscimenti, il Pop Group si riforma come quartetto, prima per alcune esibizioni dal vivo e poi per due album, Citizen Zombie del 2015 prodotto da Paul Epworth (reduce dai dischi di Paul McCartney, Adele e Coldplay) e Honeymoon on Mars del 2017 in cui torna Dennis Bovell, produttore di Y. Non è più epoca di avanguardie e il loro sound appare se non scontato, meno sorprendente, ma è il destino degli artisti di culto: molte delle loro bizzarrie giovanili sono entrate nei canoni della contemporaneità. La loro vena polemica è comunque sempre presente. Nati incendiari non sono diventati mai pompieri.
Stewart lavora poi, sempre con Bovell, a una reinvenzione in chiave dub di Y e al progetto corale Vs, uscito nel 2022, che lo vede collaborare con una lunga serie di discepoli e artisti a lui affini quali membri di Cabaret Voltaire, Pan Sonic, Front 242 e Consolidated, con l’ex Minutemen Mike Watt, il produttore Adrian Sherwood, il rumorista giapponese KK Null e il leggendario produttore reggae e dub Lee «Scratch» Perry in una delle sue ultime apparizioni discografiche.

GLI OMAGGI
«Quando i Birthday Party si trasferirono dall’Australia al Regno Unito nel 1979 – ha scritto Nick Cave sul suo sito web Red Hand Files alla notizia della morte di Stewart – fu in parte grazie al Pop Group. Li amavamo davvero, suonavamo ininterrottamente la loro musica strana e assolutamente unica, riuscendo a malapena a capire cosa stessimo effettivamente ascoltando. Per noi, tagliati fuori dal mondo in Australia, il Pop Group incarnava la promessa selvaggia e creativa del Regno Unito».
«Bristol non sarà più la stessa», hanno scritto i Massive Attack su Twitter. E ancora Daniel Miller, direttore dell’etichetta Mute, una delle ultime dimore di Stewart: «La sua influenza musicale è stata molto più grande di quanto spesso si riconosca… Spero che tu trovi la tua pace molto speciale». Gareth Sager del Pop Group ha ricordato così l’amico: «Mark era la mente più straordinaria della mia generazione». Ma il suo lascito musicale andrà sempre ricordato accompagnato al suo impegno politico. «Penso che sia importante impegnarsi con la realtà su ogni tipo di piattaforma sociale – aveva detto in una recente intervista -. Dobbiamo lottare per avere voce in capitolo nel futuro. Sto pensando come un crociato. Mi dispiace parlarne, ma basta che le persone buone non facciano nulla perché il male prevalga. Tutti devono darsi da fare!».

POST PUNK QUELLA RIVOLUZIONE CHE NON DORME MAI, UNA STORIA
Quando si ricorda la svolta musicale rappresentata dal punk negli anni Settanta spesso si dimentica che non fu solo un movimento artistico legato al «contenuto» della musica, ma fu soprattutto una rivoluzione che aprì nuovi orizzonti al modo in cui la musica veniva prodotta, registrata, consumata. In anni in cui rock e pop erano al cuore della discografia commerciale, il punk fu Prometeo, rubò il fuoco che animava la musica giovanile e lo diffuse a nuove generazioni, a nuove classi sociali, facendo capire che l’entusiasmo e il messaggio erano più importanti della capacità di suonare o delle regole imposte dalle elite culturali o dal mercato. Quello che gli U2 chiameranno in una canzone «Il miracolo di Joey Ramone». «L’umiltà dei Ramones e il loro stile ci colpì – scrisse Bono su Time all’indomani della morte di Joey -. Erano l’antitesi di ogni altra band che avessimo mai visto. A veder suonare gli altri ti sentivi un paesano qualunque, a veder suonare loro sembrava che sul palco ci fosse uno di noi». Quando Malcolm McLaren vide John Lydon per la prima volta, il futuro leader dei Sex Pistols indossava una maglietta dei Pink Floyd a cui aveva aggiunto con un pennarello la scritta «I HATE» (Io odio). La musica dei giovani rischiava di morire sospesa tra l’intellettualismo e il virtuosismo del progressive e la superficialità commerciale della disco dance. Era tempo di voltare pagina.

1979
La prima ondata punk si consumò in fretta, ma la febbre creativa che generò trovò altre direzioni e altre manifestazioni tanto da creare un intero ambito musicale difficilmente catalogabile e che oggi è etichettato come «post punk». In tanti hanno provato a definirlo, ma è impossibile farlo dal punto di vista semplicemente musicale poiché coprì un panorama decisamente ampio e frastagliato. Fu però un movimento di liberazione artistica che nasceva dallo stimolo, dall’energia, dal «fuoco» del punk. In questo senso l’esordio del 1979 del Pop Group è uno dei dischi di riferimento, varcando ogni confine conosciuto senza le pretese virtuosistiche o stilistiche del progressive o di generi più colti.
Il 1979 è quindi uno dei quegli anni spartiacque nelle cronologie musicali perché può davvero essere visto come l’inizio di un’era. Circa un mese dopo Y, i Cure da Crawley, West Sussex, pubblicarono il loro esordio Three Imaginary Boys; l’essenzialità punk era virata verso atmosfere più cupe tanto che una recensione dell’epoca definì «irritante» l’album e pronosticava a Robert Smith e colleghi una rapida caduta nel dimenticatoio: «Nel 1979, nessuno dovrebbe farla franca con robe di questo genere». Non passò un mese che uscì un altro album storico, Unknown Pleasures dei Joy Division da Manchester. Il suono si faceva cupo e claustrofobico, a tratti gelido quasi a segnalare un distacco emotivo in un repertorio in cui prevaleva una sconsolata introspezione al messaggio politico e sociale. Il post punk diventava una «new wave», una nuova ondata, in cui confluivano sempre più non solo ritmi funk e atmosfere gotico-dark, ma anche un uso sempre più disinvolto dell’elettronica. Il successo commerciale arrise ai londinesi Tubeway Army che con il loro singolo Are «Friends» Electric?, tratto dal loro secondo lavoro Replicas, raggiunsero il primo posto in classifica. Il leader della band Gary Newman capì che l’elettronica sperimentale dei Kraftwerk poteva essere riletta alla luce di questa nuova onda e riadattata per platee più ampie. Non solo firmò un altro singolo di successo, Cars, ma diede vita al filone synth pop che di lì a poco avrebbe ispirato una band di Basildon, una cittadina a pochi chilometri a est di Londra: i Depeche Mode.

RIBELLIONE ESTETICA
I Wire avevano già un buon seguito nella capitale inglese, con il terzo album, 154, sceglievano un sound più minimale e asciutto. Un ritmo reggae, un basso martellante e un cantato alla Joe Strummer, così si presentarono anche gli esordienti Killing Joke londinesi con l’ep Nervous Breakdown. Esordiranno su album l’anno dopo con il loro omonimo lp, oggi ritenuto un classico.
L’estate del ’79 iniziava con l’esordio degli scozzesi di Glasgow Simple Minds. Life in a Day aveva come obiettivo quello di raggiungere il grande pubblico, ma la band di Jim Kerr era in sintonia con lo spirito dei tempi tra riff punk anestetizzati e uso attento di elettronica e tastiere, lo stesso anno la formazione pubblicherà anche un secondo album decisamente più ispirato dai Joy Division. Ad agosto, la piccola etichetta Small Wonder, che aveva già prodotto il primo singolo dei Cure Killing an Arab, diede alle stampe anche il classico Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus capace di consolidare nel mondo del post punk il filone dark che diventerà anche moda e ribellione estetica. Sempre nel 1979, a settembre, ecco Entertainment! dei Gang of Four di Leeds in cui la chitarra di Andy Gill (vedi Alias del 15 febbraio 2020, ndr) dava al punk quello che il punk non aveva ancora avuto, un approccio più aperto verso il groove con ritmi funky e reggae, senza addentrarsi negli eccessi spigolosi del Pop Group. La nuova onda coinvolse anche l’altra isola dell’arcipelago britannico. A Dublino esordirono gli U2 con il singolo Out of Control. La data, ormai storica, è il 26 settembre ’79, la canzone venne accompagnata da altre due brani Stories for Boys e Boy/Girl. Il singolo convinse la miope etichetta CBS a liquidarli, gettandoli nelle braccia della label reggae Island. A far capire a tutti che il punk britannico era morto per rinascere con un’altra missione ci si mise anche John Lydon, non più «Rotten», proseguendo il progetto Public Image Ltd con il secondo album Metal Box, datato novembre ’79. Era un misto di improvvisazione rock e ricerca di nuove sonorità che avevano non pochi debiti con le asperità del Pop Group.
In quegli anni la scena si completava con protagonisti quali Ultravox, Echo and the Bunnymen, Clock Dva, Fall, Throbbling Gristle/Psychic TV, Adam and The Ants, The Pretenders. Le strade poi di molti di questi artisti si separeranno. C’è chi sarà destinato a diventare superstar, chi a inseguire un successo da classifica effimero e chi a perdersi in percorsi coraggiosi ma di nicchia. Tutte queste band tra loro molto diverse vennero contagiate, in una breve e memorabile stagione, da una febbre creativa e dalla voglia di rispettare la sola vera regola del punk: «rifiuta ogni regola».
L’etichetta post punk nel corso degli anni è stata così abusata da essere onnisciente, ma le ondate revival si sono ripetute nel tempo. Nei primi anni del nuovo millennio la scena britannica ha fatto rivivere quei fremiti in artisti come Franz Ferdinand, LCD Soundsystem, Bloc Party, Futureheads, Editors, Maxïmo Park e nei primi Arctic Monkeys. Oggi una nuova generazione di band si getta ancora in quel magma di idee e ribellione datato 1979. I neo punk anarchici Idles vengono dalla Bristol del Pop Group. Da Londra e dintorni arrivano Shame, Black Midi, Crows e Life. Anche Dublino sta vivendo un’altra stagione di grandi promesse con Fontaines D.C., The Murder Capital e Gilla Band. Sono i corsi e i ricorsi della storia e quando si parla di musica, certe rivoluzioni, per fortuna, non sono facili da sedare.

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