Il regista americano Mark Rappaport è l’ospite della sezione Presenze del Sicilia Queer 2022, a Palermo dal 30 maggio al 5 giugno. Autore prolifico sin dalla metà degli anni Sessanta, la sua produzione si divide in due parti piuttosto distinguibili, e a Palermo sarà possibile vedere quella video-saggistica che maggiormente si concentra su una rilettura controcorrente della storia del cinema. La conversazione integrale con Mark Rappaport, di cui questa è un estratto, è pubblicata sul catalogo del festival.

Inzerillo: Come giudichi oggi i tuoi primi lavori? Alcuni dei tuoi estimatori, pur ritenendo i tuoi video-saggi più recenti molto acuti e divertenti, pensano che quello che cercavi di fare negli anni Settanta fosse qualcosa di davvero rivoluzionario.
Penso sia facile dire che i miei film degli anni Settanta fossero più complicati, più interessanti, più… non userei la parola rivoluzionari, ma comunque più stimolanti. Non sono d’accordo: ritengo che anche i miei video-saggi siano parecchio complicati. From the Journals of Jean Seberg (1995) è un film molto complesso, ma anche il mio ultimo Martin und Hans (2021) non è da meno: parla di una coppia di attori omosessuali che si opponevano al nazismo e che si rifugiarono a Hollywood, e ci sono tre narratori che si alternano continuamente. I miei film narrativi erano melodrammi privati della loro linfa: melodrammi molto asciutti. Avevano la struttura dei melodrammi ma senza il tipico procedere graduale con cui si raggiunge una certa intensità emotiva. Erano melodrammi prosciugati, privi dello Sturm und Drang del melodramma.

In Mozart in Love (1975) ad esempio prendevo molte arie di Mozart senza badare al significato specifico che avevano nelle opere originali, ma solo in quanto bellissimi brani musicali, e le usavo per raccontare una storia. Avevo bisogno della struttura delle melodie di Mozart per fare il film ma volevo privarle del loro contesto: così una ragazza canta con voce di basso, un tenore con voce di soprano… Tutto si mescola, diventa uno spezzatino in cui non riesci più a raccapezzarti. Anche nei miei film narrativi mi servivo di punti di svolta in una trama senza il piacere di fare tutto il percorso per arrivarci – ammesso poi che questo percorso sia davvero un piacere.

Il mio sogno sarebbe stato girare un film come Viridiana di Buñuel, che penso sia uno dei più grandi film mai realizzati. Ma non ho quella capacità di raccontare, non l’ho mai avuta. E quando l’ho capito mi sono sentito come liberato; ho scritto molte sceneggiature ma nessuna di queste è stata poi prodotta.

L’ultima sceneggiatura si chiamava Pasolini’s Next Movie, era sugli ultimi giorni di Pasolini. Ero riuscito ad avere l’interessamento di Willem Dafoe (molto prima di Abel Ferrara) ma non sono riuscito a far leggere a nessuno quella cazzo di sceneggiatura. Dicevano: «Sarà una cosa troppo deprimente». Nessun produttore mi ha concesso un pranzo, una colazione, per potergliene parlare. Bastava dire: «È un film su Pasolini e su come è stato ucciso» e ti rispondevano: «Torna quando avrai qualcosa su adolescenti al college che scopano». Così ho capito che erano finite le mie possibilità come regista: era il 1999.

Inzerillo: Cosa è successo dopo (o nel frattempo)? Il tuo approccio è leggermente cambiato.
Fui invitato da Raymond Bellour a scrivere un articolo su Rock Hudson’s Home Movies, che aveva visto e apprezzato; quindi nel 1994 cominciai a scrivere e capii che il mio punto forte stava nel commentare piuttosto che inventare. Ho smesso di fare film e sono andato a Parigi, dove ho scritto parecchio, e poi nel 2014 qualcuno mi ha chiesto di realizzare un video-saggio. «Cosa cazzo è un video-saggio?». Non ne avevo idea, ma ho detto: «Certo, lo farò». Così nacque The Vanity Tables of Douglas Sirk.

Isabella: Negli anni Novanta la sperimentazione con il video ti consente un nuovo modo di fare film in cui non sei tu a girare direttamente le immagini. Film su altri film e con immagini di altri film. Nel 1992 realizzi un film di montaggio su Rock Hudson, che è anche raccontato da un attore che interpreta Rock Hudson.
Venivo da due anni di malattia, e ho fatto Rock Hudson’s Home Movies anche per reagire, pensando di non avere più energia per continuare a fare film. L’accoglienza che ha ricevuto è stata per me una vera sorpresa: pensavo avrebbe interessato quattro o cinque persone al mondo. Sapevo che con questo film avrei avuto più possibilità di fare colpo rispetto a un altro progetto che volevo fare (sulla rappresentazione degli artisti nel cinema di Hollywood). Ma il pubblico gay non l’ha mai amato, forse perché non è come tutti quei film degli anni Ottanta e Novanta sugli adolescenti che fanno coming out. Anche il rating su IMDB è molto basso, i gay di solito lo detestano.

Isabella: E come mai hai deciso di fare un film su Jean Seberg?
Adoro Jean Seberg, andavo a vedere i suoi film ogni volta che uscivano, persino Gli uccelli vanno a morire in Perù e Ondata di calore che rischiano di essere i peggiori film mai fatti nella storia, ma lei ci recitava. Ricordo vividamente la campagna di Preminger per trovare un’attrice che interpretasse Giovanna d’Arco, e io divenni fan di Jean Seberg. Odio quella parola, ma ero davvero un fan. Era un’americana che aveva vissuto a Parigi, parlava francese: meglio di così non si poteva, la trovavo ammaliante. Mi piaceva quel che proiettava sullo schermo, pensavo fosse una personalità interessante. Anche la mia ex moglie l’amava, e dunque c’era anche questo tipo di legame personale. Certe cose mi fanno diventare nostalgico, anche quelle per cui non varrebbe la pena provare nostalgia. Tutti i cinema in cui ho visto un film con Jean Seberg ormai non esistono più.

E poi ti chiedi, a proposito di quei palazzoni che ci costruiscono sopra, «Sono forse infestati dai fantasmi delle immagini di tanto tempo fa che sono scomparse per sempre dagli schermi?». Ne ho scritto in uno dei miei articoli. In Bellissima di Visconti guardano Il fiume rosso nel cortile di un palazzo. Forse proiettato su un lenzuolo, non so, non ricordo bene. E poi che succede la mattina dopo, quando il lenzuolo non c’è più? Ripiegano il lenzuolo? Alla fine è così, ti resta solo un barlume di memoria dei film, ti ricordi certe frasi, certe battute, certi gesti che gli attori fanno, magari una frase musicale che resta con te, ma è tutto così evanescente… Svanisce anche ora mentre ne parliamo.

Isabella: Ritorni di continuo al cinema degli anni Quaranta e Cinquanta, da dove trai la materia grezza per i tuoi commenti, un po’ come fa un pittore, che va sempre negli stessi posti a dipingere gli stessi soggetti.
Se di notte mi trovate a guardare un DVD sarà probabilmente un film degli anni Quaranta e Cinquanta. Perché quelli sono i registi più interessanti! Amo Ophüls, Siodmak, Preminger. Amo Viale del tramonto e La fiamma del peccato, ma non vado oltre con Billy Wilder. Alcuni miei film sono stati mostrati recentemente all’Anthology Film Archive, e qualche amico mi ha detto: «Nei tuoi film c’è molta roba ebrea», e io: ’E roba nazista, e roba gay’. Alla fine ho detto: ’Immagino che il mio tema portante sia: ’Nazisti e gay e ebrei, ohimè!’», come nel Mago di Oz: «Leoni e tigri e pantere, ohimè!». In realtà mi interessano anche altre cose e penso si veda dai miei film, e mi piace collocarle in varie situazioni storiche e politiche.

Inzerillo: In «Tati vs. Bresson: The Gag», che dura 21 minuti, per dieci minuti non parli né di Jacques Tati né di Robert Bresson. Fai lo stesso in «Sergei/Sir Gay» (2017), dove non parli solo di Eisenstein, ma di Fassbinder, Visconti e altri, è perfettamente normale per te ed è molto interessante. Guardando i tuoi film non in ordine cronologico ho pensato che a un certo punto si sarebbe arrivati a un film il cui titolo sarebbe stato semplicemente «Cinema», nel quale ti avremmo visto muoverti attorno al cinema che ami o che pensi meriti di essere visto in un altro modo. Questo forse è il fil rouge che unisce tutti i tuoi video-saggi. Quando prendi un capolavoro come «Casablanca» non parli di Humphrey Bogart ma di Marcel Dalio, di Conrad Veidt, di tutti gli altri attori. Mi piacerebbe che ci dicessi qualcosa sulla tua idea di contro-storia o di storia alternativa del cinema.
Penso che la cosa che mi interessa di più sia parlare di film e persone che in qualche modo sono cadute nell’oblio, che non fanno parte della storia del cinema ufficiale. Intendiamoci: la storia è senza pietà. Tiene conto solo delle cose che si fanno notare, delle cose che hanno successo, delle cose che sono arrivate in cima come la crema in una bottiglia di latte. E così tanto viene dimenticato, buttato via, e non entra a far parte della storia ufficiale. Alla fine il mio è un lavoro da archeologo. Manny Farber parlava di «arte dell’elefante bianco» e di «arte della termite». L’elefante bianco è Licorice Pizza, o anche peggio di così, Belfast. Potete anche torturarmi, quel film non lo andrò mai a vedere; potete farmi squartare da quattro cavalli, continuerò a rifiutarmi. Ma questi film entreranno nella Storia. I film che mi interessano, con l’eccezione ovviamente di quelli di Max Ophüls, non resteranno nella Storia.

Io voglio fare una storia sotterranea. Voglio essere la termite che lentamente si fa strada masticando tutta questa robaccia che è stata gettata via per trovarci qualcosa di valore, o nemmeno di valore, ma qualcosa che è andato perduto. Proprio ora sto lavorando a un progetto su John Dall, di cui non avrete mai sentito parlare, ma è il killer principale in Nodo alla gola di Hitchcock nonché il protagonista del film di Joseph H. Lewis, La sanguinaria. È morto a 50 anni. Ha fatto due grandi film. Dopo aver recitato in due grandi film dove però hai fatto lo psicopatico puoi scordarti per sempre di fare una carriera a Hollywood. È morto a 50 anni, ed era gay, ovviamente. È una ricerca molto interessante e per me fare ricerca in questo caso vuol dire guardare i film, perché chi ha mai scritto qualcosa su John Dall? Nessuno.