Mario Torelli marxista malinconico
Mario Torelli 1937-2020 Formatosi con Pallottino e Bianchi Bandinelli, Mario Torelli fece dell’etruscologia il centro di una ricerca poi allargata a tutto il mondo antico. Aderì al marxismo più come filosofia (e sentimento) che come pratica politica
Mario Torelli 1937-2020 Formatosi con Pallottino e Bianchi Bandinelli, Mario Torelli fece dell’etruscologia il centro di una ricerca poi allargata a tutto il mondo antico. Aderì al marxismo più come filosofia (e sentimento) che come pratica politica
Ho cercato una foto di Torelli che non fosse accademica: un’immagine che imprigionasse il sentimento di felicità che gli veniva dal confronto con gli studiosi più giovani. L’ho trovata nell’ottobre del 2014: una terrazza romana, in occasione di un convegno della serie E pluribus unum?, ch’egli governò con la «divorante curiosità» – espressione sua – che gli era stata propria fin dagli anni liceali.
Nella persistenza di una specie di «titanismo» adolescenziale è forse il contrassegno dei grandi intellettuali: fedeltà senza diversioni alla curiosità originaria, radicale e immotivata di chi s’interroga e interroga gli altri e avverte in questo – senza comprendere subito perché – una gioia profondissima: divertimento sconfinato del dilettante. Il divertimento ch’era stato di Pallottino, supervisore sessant’anni fa della sua tesi di laurea, anche se in un senso differente da quello poetato dal vicino di appartamento, Aldo Palazzeschi, nella casa dirimpettaia del Sant’Andrea di Cavaradossi.
Credo sia giusto partire da Pallottino, anche se Torelli ne ricordava i «rapporti assai spigolosi», opponendogli Bianchi Bandinelli, amico e non solo maestro. È tuttavia evidente, oltre la distanza ideologica, l’affinità dei due profili di antichisti, che si riconosce nella dilatazione delle scelte tematiche e delle tattiche di ricerca: sebbene in Pallottino queste si organizzassero nella reinvenzione strategica di un’etruscologia fatta autonoma dalla sua pluridisciplinarità; e in Torelli nell’acquisizione, per davvero titanistica, di uno sguardo allargato sul mondo antico, in cui il tema etrusco manteneva una sua centralità, ma come punto di partenza anziché di arrivo. Ritroviamo in Pallottino, come nell’allievo parricida, il gusto dell’interazione di fonti e di metodi, a dar vita all’esercizio di un’antiquaria nuova, arroventata di una passionale tensione storicistica.
Non ne esce attenuato il ruolo assunto da Bianchi Bandinelli nella paideia del giovane Torelli, il quale tuttavia non fu quasi mai storico dell’arte alla maniera, tutto considerato neoidealistica, di Bianchi Bandinelli, e colse anzi, con qualche tristezza, il limite critico di una svalutazione della forma figurativa etrusca, che non poteva essere in tutto compensato dalla contestualizzazione storico-sociale. Merita citazione quanto Torelli sottolinea nella presentazione autobiografica per il Premio Balzan: se Bianchi Bandinelli «ebbe a scrivere che la sua adesione al marxismo è stata politica e non filosofica (…) oggi posso dire che la mia situazione (…) è specularmente inversa (…) la mia adesione al marxismo resta nella sostanza di natura filosofica, ma malinconicamente non politica». Bianchi Bandinelli, figura di spicco del PCI e maestro di una generazione di studiosi marxisti del mondo antico – che per quasi un trentennio si riconobbe nella rivista «Dialoghi di archeologia» –, continuò a praticare una critica d’arte che riteneva ancora attuale e necessaria, e sino all’ultimo come l’aveva sempre fatta, con un’attenzione agli aspetti economici e sociali che non marginalizzò mai l’oggetto principale della sua riflessione, cioè i processi di trasformazione della forma. Torelli invece non trasse vere soddisfazioni da un impegno politico che pure era stato inizialmente intenso e quasi professionale – inclusi quattro anni di studio della lingua cinese, di cui andava orgoglioso –, e il marxismo l’interiorizzò quasi religiosamente, come una norma etica e un modello esistenziale.
Fu questo marxismo politicamente marginalizzato e divenuto qualcosa di simile a un sentimento, a consentirgli d’essere fedele alla strepitosa libertà intellettuale, che alimentava la sua curiosità degli uomini e delle cose: degli uomini attraverso le cose. Così possiamo comprendere le svolte di metodo che hanno contraddistinto il suo itinerario scientifico.
La partenza etrusca – non solo per via della tesi, ma soprattutto per il ruolo di funzionario a Villa Giulia – portò Torelli a immediato confronto con le evidenze delle aree sacre di Santa Marinella e di Gravisca, che gli permisero d’immettere nel dibattito degli specialisti due grandi novità: il non breve testo etrusco su lamina di piombo da Punta della Vipera; e documenti preziosi della frequentazione internazionale nel santuario emporetico di Tarquinia. L’esito maggiore di questi esordi è da indicare nella monografia del 1975 dedicata alla gens degli Spurinas, su cui di nuovo nel 2019, chiudendo il circolo perfetto di un interesse mai venuto meno. Nella connessione sistemica – aggettivo che piaceva a Torelli – tra iscrizioni, quadro archeologico e immagini (i dipinti delle tombe dell’Orco), s’affacciava un uso nuovo dell’iconografia – che di sicuro non era pallottiniano, e solo in parte riconducibile a Bianchi Bandinelli.
Non ci si deve perciò stupire della virata iconologica del Torelli post-anni ottanta. Non si trattò di fuga dal reale materialistico all’immaginario dei simboli, ma di una modalità investigativa efficace a sostanziare il ruolo produttivo delle élites che avevano alimentato la domanda d’arte, e a chiarire il senso etrusco e romano del riuso dei modelli ellenici. In una storia dell’arte concepita come storia delle immagini, la categoria del sacro – mitologico per gli Etruschi, giuridico per i Romani – perdeva il carattere sovrastrutturale dell’ortodossia marxiana e diventava motore e chiave interpretativa dei fenomeni. Tutti i lavori degli ultimi vent’anni sono intessuti del medesimo inquieto andirivieni fra lettera dell’immagine, contenuto narrativo ed esplorazione di mentalità.
Emblematica la mostra che Torelli progettò per Palazzo Grassi. Non credo di averglielo mai detto ma, richiesto di una presentazione, la intitolai Gattopardi etruschi: per mettere in chiaro che quella non era la solita antologia d’arte o di civiltà, ma il frutto di una riflessione personalissima sulla storia di un’aristocrazia eguale a se stessa nel tempo, pur attraverso la varietà dei segni e degli stili cui aveva affidato la materializzazione dei suoi sogni. Perché anche il sogno, se si converte in immagine, può diventare oggetto di un’elaborazione storica.
E come il sogno traspare dalla materia, così la nota bella e chiara del suo essere uomo, con l’urgenza degli affetti, si lasciava intendere non meno nell’immascheratura elegante di certi suoi momenti d’alta etichetta accademica, che nel vivo della polemica più accesa. Quando voleva esprimere una speciale concentrazione – che spesso significava dissenso –, faceva un gesto caratteristico con le stanghette degli occhiali; e mi ricordo di averle tenute costantemente d’occhio, le temibili stanghette, la primissima volta che presi parola in un seminario da lui presieduto.
Non eravamo vicini né per anagrafe né per formazione ideologica: ma Torelli mi è stato plesios, e con lui ho perduto un amico. Philos, perciò, la miglior epigrafe: come quella veduta su un sarcofago di Cipro, antico e da molti onorato.
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