Mario Merz, scompiglio del vento in attesa di un approdo
A Palermo, Padiglione Zac A vent’anni dalla scomparsa di Mario Merz, la prima retrospettiva in Sicilia, «My Home’s Wind», a cura della figlia Beatrice. Gli igloo e i disegni configurano, per una comunità disorientata, un mondo lunare e primigenio
A Palermo, Padiglione Zac A vent’anni dalla scomparsa di Mario Merz, la prima retrospettiva in Sicilia, «My Home’s Wind», a cura della figlia Beatrice. Gli igloo e i disegni configurano, per una comunità disorientata, un mondo lunare e primigenio
Accanto alla cattedrale ci sono le barricate, e un lungo sentiero di terra rossastra rivendica l’improvvisa rinascita della Palermo garibaldina. Lo scorcio pre-urbano è solo uno dei tanti set, disseminati per la città, della serie tv ispirata al Gattopardo, il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa già divenuto un film capitale nel 1963, per la regia di Luchino Visconti.
Così, nel capoluogo siciliano, la macchina del tempo riavvolge il suo nastro e se nelle vie centrali Palermo torna al risorgimentale XIX secolo, nel vasto spazio dello Zac ai Cantieri culturali alla Zisa si affonda direttamente in un mondo arcaico, primigenio, lunare, cosmico. È lì che in un rovesciamento di prospettive geografiche e culturali sono venuti alla luce gli igloo di Mario Merz ed è sempre lì che si aggirano bizzarre creature preistoriche. Forse dinosauri ma di certo, come sostiene l’artista, «guardiani» di quella quarta dimensione temporale che non contempla uno sguardo diacronico ed evolutivo, ma una contemporaneità bergsoniana: la durata della coscienza.
My Home’s Wind è il primo capitolo di un progetto commemorativo, a vent’anni dalla scomparsa, dedicato a Mario Merz (la mostra è visitabile fino al 24 settembre) e annota una presenza inedita in quell’ex complesso industriale presidiato per tre anni dalla Fondazione Merz di Torino con il progetto ZACentrale (co-curato da Agata Polizzi). In altre epoche, negli hangar si assemblavano vagoni di treni e, precedentemente, anche i mobili déco della celebre fabbrica Ducrot, che poi condivise la «casa» con un’azienda per la produzione di aeroplani e, infine, con l’industria ferroviaria. Adesso, fascine di rami, igloo di pietre, vetri e argilla, sequenze luminose di numeri, animali revenants popolano il padiglione Zac, incubando antichi sogni e nuove profezie.
Il titolo della retrospettiva è una citazione letteraria, riecheggia gli eroi omerici e riconduce al presente, all’incertezza, alla ricerca famelica di un approdo, di una casa. Una comunità disorientata è la spettatrice principale di questa mostra siciliana. «Nella costruzione delle sue personali – spiega la figlia Beatrice Merz, presidente dell’omonima Fondazione e curatrice della rassegna – abbiamo l’abitudine di aprire il percorso con una sua frase. La nostra ricerca, pescando tra gli scritti, questa volta si è affidata al vento: sembrava combaciare perfettamente con i tempi che stiamo attraversando. My Home’s Wind accompagnerà tutto l’anno il fitto programma che si svolgerà in omaggio alla figura dell’artista e che avrà un apice nel mese di ottobre».
D’altronde, seguendo la stessa suggestione delle parole di Merz, il vento trasportatore, «è il ponte non costruito, ancora da costruire, il ponte già costruito, il ponte terrestre». È un punto imbastito con lucidità onirica nella tela esistenziale, una oracolare sentenza filosofica, un po’ come quella sequenza di Fibonacci al neon che unisce saldamente cultura e natura (la crescita e l’evoluzione organica di cui dà misura con i numeri in perenne addizione).
Nella mostra palermitana, oltre agli interstizi abitativi riempiti con gli iconici igloo, ci sono molti disegni alle pareti. Mario Merz cominciò così le sue esplorazioni nell’arte – che poi condurrà insieme alla moglie Marisa, grande affabulatrice dei materiali e domatrice di memorie. La sua prima volta fu quasi per disperazione e forse noia. Prigioniero politico (fu arrestato durante un volantinaggio antifascista) nelle Carceri Nuove di Torino, nel 1945 si trovò a ritrarre un compagno di cella. Uscito, continuerà a dedicare intere giornate al tempo del disegno, standosene all’aperto, sui prati, dalla mattina al tramonto, riportando negli album l’erba stessa o gli scompigli imprevisti del vento. Un’attività, confessò, che gli permetteva di pensare, tanto che Germano Celant riconobbe quel suo gesto come fondativo. «Il processo sismografico del disegnare e dipingere» era un momento germinale, che mentalizzava i materiali a disposizione per poi riprodurli (quando Merz corroderà i confini di fogli e tele) nella loro povera eppure potente fisicità, autonomamente significanti.
Gli scritti di Merz sono costellati di schizzi e la maggior parte dei segni originari inseguono la spirale come formula magica sulla quale far srotolare il mondo, le foreste, gli alberi che con le loro ramificazioni equilibrate diventano un principio concettuale. Semi, universi floreali, mani, gusci di lumache, piccoli rinoceronti e coccodrilli sono i sillabari specifici di quel «paesaggio trasversale», frammentario, ritmico e sempre temporaneo (proprio come la provvisorietà ingegnosa incarnata dagli igloo) che conserva in sé un principio di energia vitalistica. «Il disegno come fatto totale, dettato dalla necessità di essere, piuttosto che dalla necessità di rappresentare», affermava l’artista.
La strategia è sempre quella di prendersi la libertà di vivere, assumendosene la responsabilità. Per questo motivo, il rifugio nomadico degli esordi , datato 1968, trasudava sulla «sua pelle» la tattica temporeggiatrice del generale nordvietnamita Giap: «se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza».
Carla Lonzi intuì fin dal 1962, descrivendo i dipinti di Mario Merz esposti alla galleria Notizie di Torino, quella riluttanza alla definizione puntigliosa in favore del mistero sfuggente. «Qualcosa è lì – scriveva – in una specie di screziatura naturale; una sovrapposizione assidua, esigente, l’ha portato a compimento. Il dramma non esiste più e neppure l’elegia; ogni segno ha tratto il suo peso, la sua intensità, la sua struttura in un momento della vita, fluiscono l’uno nell’altro consapevoli del tempo che neutralizza ogni eccesso. Inventare per Merz è entusiasmarsi di questa scoperta (che è un po’ l’approdo del suo andarsene per conto proprio)…».
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