Mario Giacomelli, nel regno della camera oscura
Intervista Parlano il figlio e la nipote del grande fotografo, direttori dell’archivio
Intervista Parlano il figlio e la nipote del grande fotografo, direttori dell’archivio
Il nocciolo di pesca insieme a ciò che resta di un toscano fumato fino all’ultimo da Mario Giacomelli (Senigallia 1925-2000), un «lessico famigliare» che restituisce la ritualità rassicurante del quotidiano che era una necessità anche per «l’uomo nuovo della fotografia italiana» come lo definì Paolo Monti. Siamo nella soffitta della casa costruita nel 1961 in via Verdi, abitata fino a qualche anno fa dalla moglie Anna e dal figlio Neris. Nel sottotetto c’è la biblioteca in corso di catalogazione con la collezione di serrature e chiavi antiche e, al di là della porta gialla su cui è scritto «io fotografo quello che penso», il regno magico della camera oscura.
Soprattutto dopo aver lasciato la Tipografia Marchigiana, sua attività principale dal 1950 e negli anni meta del pellegrinaggio di artisti, studiosi e appassionati di fotografia di tutto il mondo, che dagli anni ’70 aveva affiancato al camping Summerland e poi al negozietto di «ciaffi» orientali, Giacomelli trascorreva parecchio tempo in questo ambiente. Nei mesi estivi alternava il buio della camera oscura alla luce intensa del sole quando a petto nudo, subito dopo pranzo, si sdraiava nei pochi metri quadrati del terrazzino lì accanto. Ascoltava la musica, leggeva le poesie e naturalmente lavorava con i negativi e le stampe trasferendo alla dimensione di prevedibilità del reale l’impronta sconfinata della fantasia del proprio mondo interiore.
Un percorso esistenziale confluito in un linguaggio artistico originale, a partire dalla prima fotografia L’approdo (1953) con una vecchia scarpa e una stella marina sulla spiaggia di Senigallia che aveva colpito positivamente Giuseppe Cavalli, fino alle serie più note su cui tornerà a lavorare nel tempo come Vita d’ospizio (diventata successivamente Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), i Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto, prendendo in prestito una poesia di padre David Maria Turoldo), i paesaggi, i nudi, le astrazioni di Bando e Favola, verso possibili significati interiori.
Non è un caso che John Szarkowski scelse proprio un’immagine come Il bambino di Scanno (1957) per esporla al MoMa di New York nella collettiva The photographer’s Eye (1964). Il suo rapporto privilegiato, però, era con la poesia: non solo Giacomo Leopardi (A Silvia, L’infinito), tra gli altri anche Emily Dickinson e Alda Merini di cui aveva trascritto su una parete della camera oscura i versi «A volte Dio uccide gli amanti perché non vuole essere superato in amore».
Del suo ultimo lavoro Questo ricordo lo vorrei raccontare (2000) uscirà il libro nella primavera 2022. Ad aprire la porta di casa sono il figlio Simone Giacomelli (1968) che fin dal 1984 ha collaborato con il padre nella redazione dei suoi scritti e la nipote Katiuscia Biondi Giacomelli (1976), figlia della primogenita Rita, direttori e curatori dell’Archivio Giacomelli. «Tutti noi abbiamo avuto il rispetto nel mantenere la casa il più possibile com’era.» – spiega Katiuscia – «Anche perché tutto ciò che si vede: mobili, soprammobili, quadri… erano scelte di Giacomelli. Quando ho vissuto qui con mia nonna, nel 2011, nell’ingresso sopra la cassapanca c’era un piattino con delle noci.
Erano lì da tanto tempo così decisi di metterle nel cestino insieme ad altre. Non sapevo che fossero importanti per lei. Mia nonna si accorse subito che non erano più al loro posto e, tutta agitata, mi chiese dove le avessi messe. In un secondo hai cancellato tutti i miei ricordi, mi disse. Quelle noci le aveva messe lì Tipo. Tipo era Mario Giacomelli, perché era un tipo oltre che tipografo. Lo chiamava così da quando erano fidanzati. Nonna ci teneva che tutto rimanesse come l’aveva lasciato lui».
Mario Giacomelli amava le abitudini e viaggiava poco: era il mondo ad andare da lui…
Simone: Da una parte ci teneva, dall’altra diceva che era una maledizione fare tutti i giorni la stessa cosa. Tutti i giorni doveva essere lui ad aprire e chiudere la tipografia che aveva in Via Mastai. C’era il socio e anche i dipendenti che lavoravano con lui da venti, trent’anni ed erano come figli, avevano tutti la chiave ma solo lui doveva aprire la porta.
Katiuscia: La casa non era frequentata dai visitatori, questo era il suo nido familiare. L’incontro con il mondo era in tipografia.
Simone: Tutto l’inverno stava in tipografia dove arrivavano studenti anche stranieri a cui concedeva solo cinque minuti perché doveva sempre lavorare. Li portava a prendere un caffè e solo in quel momento dovevano tirar fuori tutte le domande. D’estate, invece, quando andava al campeggio si sentiva libero. Gli piaceva stare con la gente che non sapeva che fosse Mario Giacomelli il fotografo, l’artista.
Se ne stava lì con la sua chioma candida vestito di nero…
Katiuscia: Era vestito tutto di nero o tutto di bianco. D’estate quando era super abbronzato sul bianco l’abbronzatura risaltava ancora di più.
Simone : Viveva con il sole. Aveva bisogno della ricarica estiva. Prendeva il sole in maniera molto intima, si chiudeva sul terrazzino. Aveva smesso di andare al mare quando era giovane, però ci sono delle foto di lui al mare con mamma. Si erano sposati nel 1954. Anche quando stava male, negli ultimi giorni prima di morire, se ne stava sempre disteso al sole e diceva che avrebbe voluto rinascere gatto. Un gatto selvatico, libero.
Viene descritto come una persona molto solitaria…
Simone: Di carattere era abbastanza riservato e chiuso. Dicevano che era anche burbero, ma era più il personaggio che si era creato perché con gli amici parlava tanto, rideva.
Katiuscia: Mangiava tanto, guardava tanto le donne… era tutto tanto e il suo opposto. Un uomo di antinomie! Mentre parlava arrivava a contraddirsi anche all’interno di uno stesso discorso.
Simone: La contraddizione era la sua coerenza, proprio come le sue fotografie erano vere e false.
Anche se viveva nel suo mondo aveva una grande conoscenza della fotografia e di ciò che accadeva al di fuori…
Katiuscia: Ha sempre detto che era ignorante ma non era così.
Simone – Si informava e da giovane aveva conosciuto Giuseppe Cavalli che lo aveva affidato a Ferruccio Ferroni. Il gruppo Misa era stato importante. Leggeva le riviste di cinema e fotografia e aveva studiato benissimo la tecnica sia da solo che con Ferroni che era pignolo e un vero maestro di stampa. Naturalmente, poi, ha applicato alla fotografia la sua personalità.
C’erano dei fotografi che amava particolarmente?
Simone: Amava soprattutto la poesia. Leggeva e poi faceva le sue scelte. Aveva un librone degli anni ’50 – Poesia Americana Contemporanea e Poesia Negra – a cui era particolarmente affezionato. Gli piacevano le ripetizioni dei testi spiritual. Amava recitare il canto «Io ho una veste, tu hai una veste, tutti abbiamo una veste… nel regno di dio…» Gli piaceva un po’ tutta la poesia, Mario Luzi, David Maria Turoldo, Alda Merini…
Katiuscia: La poesia amplificava quello che aveva dentro. Anche quando ha interpretato delle poesie non si tratta di corrispondenza letterale tra parole e immagini.
Simone: Era la sua vita che si doveva adattare alla poesia. Ogni serie è un racconto autobiografico. Un diario completo di tutti i momenti vissuti: delusioni, gioie, amori. Tutte le donne che ha incontrato sono nella sua fotografia. Anche se stesso, la madre – Nonna Libera è spesso nelle sue foto, una materia nuda e senza fronzoli, hanno vissuto insieme per tutta la vita dandosi del Voi – la moglie, i colleghi, gli amici… tutti oggetti. Sembra brutto a dirlo ma lui se ne serviva per costruirci un frammento, un rettangolo dove c’era il suo mondo. Se era arrabbiato, la rabbia stessa diventava oggetto e la metteva nella fotografia.
Condivideva le sue idee in famiglia?
Simone: Non in famiglia, ma con me da un certo momento c’è stato questo dialogo. Da piccolo mi faceva fare quello che tirava la carta, smuoveva le cose, qualche volta ho rotto qualche vetro ed il sabato lo accompagnavo a fotografare. Al porto non si poteva entrare ma c’era un buco sotto la rete e io gli facevo il palo, oppure gli passavo degli oggetti che aveva nella borsa fotografica e che usava per intervenire sulle cose, come i pastelli a olio con cui faceva dei segni sulle lastre di ferro che poi fotografava. Ad un certo momento dovevamo scappare perché c’era sempre chi avvertiva la polizia e noi eravamo due intrusi, anche se ci conoscevano benissimo. Era diventata la scenetta settimanale. Ha provato anche a farmi delle foto però a me veniva sempre da ridere. Non avevo quell’espressione truce, un po’ arrabbiata e allo stesso tempo triste che voleva. A lui, invece, riusciva benissimo! Devi stare così, il dito non si deve vedere… ripeteva, perché non voleva che nelle foto si vedesse il pollice.
Katiuscia: L’elemento della mano è importantissimo, anche nei ritratti degli anni ‘50 ci sono le mani in vista ma sono sempre in posizione innaturale, un po’ come nei disegni di Schiele.
Simone: Si è fatto fotografare le mani anche da Cavalli.
Katiuscia : A proposito dell’essere fotografati da lui, in Felicità raggiunta, si cammina sono io la bambina sull’altalena con dietro i monti, ma il mio volto è stato adombrato in camera oscura. Ricordo che mi aveva fatto mettere sull’altalena e mi diceva continuamente di non ridere. Ma come fa una bambina che è sull’altalena a non ridere? Allora mi ha fotografata in controluce.
In un certo senso la sua fotografia era fatta di «errori controllati»?
Simone: Parlerei più dell’intervento di una volontà diversa. Mi ricordo che gli ultimi anni, quando andavamo a fotografare, rimanevamo ad aspettare anche due ore che succedesse qualcosa, magari sotto il sole d’estate o con il tempo brutto. Costruiva tutta la scena mettendo anche il cane di peluche, poi aspettavamo non solo la luce, magari l’arrivo del cagnolino vero che buttava giù qualcosa. Allora, finalmente, cominciava a scattare. L’ultima speranza era che arrivasse un soffio di vento.
Katiuscia: Usava le pellicole scadute e in fase di sviluppo anche l’acqua impura con i granelli di sabbia contribuiva a rendere la fotografia già rigata, vissuta. La sua fotografia è fatta di «errori». Però non voleva che si parlasse dell’aspetto tecnico. Mi diceva «se qualcuno ti chiede come faccio le foto, dirgli che non lo sa nemmeno lui». Niente di più falso! Sapeva bene come farle ed erano di una complessità incredibile.
Simone: Sapevo che faceva delle mascherine, per esempio per i Pretini e c’è ancora un ferretto vicino all’ingranditore con un pezzo di cartone che muoveva sulle foto.
Entrando nella camera oscura si è coinvolti nel palinsesto di ricordi, dal fazzoletto della mamma alle foto di famiglia, ritagli di giornale che parlano di Cucchi, Morandi, una foto con Scianna… C’è anche una radio mangiacassette, a Giacomelli piaceva la musica?
Simone: Quando ancora abitavo qui c’era una radiolina a batterie e vicino un magnetofono con delle bobine grandi e un microfono che utilizzava per registrare le musiche o le poesie che ascoltava nelle trasmissioni della Rai. La mattina, quando veniva qui, la prima cosa che faceva era leggere una poesia ascoltando la musica.
Katiuscia: E poi cantava sempre! Per ogni donna c’era una canzone.
Simone: Sì, per le donne, perché a me non ha mai cantato niente (ride) e neanche agli amici e ai colleghi.
Katiuscia: Ogni volta che mi incontrava anche solo nel corridoio, a me che sono molto chiara di carnagione, intonava subito le note di Signorinella pallida. A mia sorella Non è Francesca.
Simone: Aveva un rapporto con il femminile che con le bimbe era delicato e simpatico, mentre con le signore poteva essere molto romantico ma anche aggressivo. Sempre rispettoso, naturalmente, perché se rispettava un fiore per terra, figuriamoci una donna!
Katiuscia: Si metteva a colorare e dipingere con gli occhiali bifocali della nonna, seduto al centro della camera oscura sotto il soffitto che aveva dipinto da sé.
Simone: In questo soffitto c’è una sintesi del suo mondo, elementi dei suoi paesaggi, la casetta, l’albero, il cerchio che diventa una spirale.
Tra le pagine di giornale appese alle pareti ce n’è una su Alberto Burri. Tra i due artisti c’è stata una reciproca affinità elettiva…
Simone:Tra le loro esperienze di vita ce n’erano poche condivise. Sicuramente quella della guerra, ma non ne parlavano molto. Lui lo descriveva come una persona straordinaria con momenti d’incontro molto silenziosi tra loro e altri in cui, magari, si parlava di donne, vino, mangiare e della natura. Mi raccontava che intorno alla casa di campagna di Burri c’era solo natura. Facevano lunghe camminate circondati dai campi pieni d’erba, dagli alberi e dal vento che gli piaceva tanto.
Katiuscia: Ho letto da qualche parte che borbottavano tra loro dicendosi cose come «guarda te se il contadino avesse messo quel quadrato un pochino più in là, che armonia avrebbe avuto l’immagine!»
Simone: La consapevolezza della bellezza della terra per lui era importante perché rappresentava le radici, provenendo da una famiglia di origine contadina. Aveva il mito per la materia della terra, le cose semplici, l’umiltà. Per anni era andato a trovare una casa che stava crollando, subito fuori Senigallia. Mi portava davanti a quella casa e ogni volta guardavamo le crepe. Mi ricordo che un sabato andò fuori e tornò subito dopo a prendermi. Mi ripeteva che era successo una cosa, la casa era crollata, morta.
Una casa bianca abbandonata. Lo stesso sentimento che aveva provato andando per anni a trovare la stessa vecchietta all’ospizio. Un giorno la trovò nella stessa posizione però non rispondeva più. Le mise sopra il fazzoletto e scattò. Quella è una delle sue foto più intense.
Katiuscia: La regola era fotografare sempre personaggi che conosceva. Anche la serie stessa dei Pretini nasce da una frequentazione durata anni.
Simone: Prima ancora di fotografarli andava al seminario di pomeriggio perché c’era la merenda con il pane crema che a casa sua non s’era mai vista. Sulla fetta di pane veniva messa la crema fatta in casa. A lui piaceva tanto e devo dire che anch’io ci sono andato qualche volta a mangiare quella stessa merenda, perché avevo un amico in seminario e la tradizione continuava.
Katiuscia: Tutta la sua fotografia è improntata sul bloccare ciò che sta per distruggersi: casolari, muri scrostati, vecchi dell’ospizio.
Simone: Scattava quando pensava che ci fosse qualcosa che finiva, attraverso la fotografia papà gli dava un’altra opportunità.
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Giacomelli / Burri. Fotografia e immaginario materico a Palazzo del Duca, Senigallia: la mostra
Il Cretto del 1970 con la sua superficie bianca screpolata (realizzato in acrovinilico su carta intelaiata) è affiancato al paesaggio «graffiato» in bianco e nero (Senza titolo) realizzato nel 1966 sulla stampa ai sali d’argento: tracce di visioni che traducono la profondità di un sentire comune sulla natura, sul paesaggio. Il primo è un’opera pittorica di Alberto Burri (Città di Castello 1915-Nizza 1995), il secondo un’opera fotografica di Mario Giacomelli (Senigallia 1925-2000). Ma in nessuno dei due è presente l’elemento della registrazione «oggettiva» del reale: il vissuto è il filtro per accedere alla realtà circostante, osservarla e restituirla con un’appropriazione di libertà consapevole.
A rafforzare il legame tra l’uno e l’altro che non è, evidentemente, solo un richiamo formale è quella dedica autografa di Giacomelli che dice «Al Sig. Burri memore della Sua gentilezza». In questo dialogo artistico entusiasmante il confronto tra queste due opere è tra i più espliciti della mostra Giacomelli / Burri. Fotografia e immaginario materico, curata da Marco Pierini con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi (che ne anche ideatore), prodotta in collaborazione con il Comune di Senigallia nell’ambito del progetto Senigallia Città della Fotografia e promossa da Fondazione MAXXI, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Archivio Giacomelli e Archivio Sarteanesi a Palazzo del Duca di Senigallia (fino al 26 settembre 2021). Un’esposizione accompagnata dal catalogo edito da Magonza che prevede due tappe successive, ognuna non sovrapponibile all’altra ma con una sua identità: al Museo MAXXI di Roma per la curatela di Bartolomeo Pietromarchi e successivamente, a cura di Bruno Corà, nella sede degli Ex Seccatoi del Tabacco – Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri a Città di Castello. I pezzi esposti provengono dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, dagli Archivi Mario Giacomelli di Senigallia e Sassoferrato, dalla Galleria dello Scudo di Verona e dall’Archivio Sarteanesi, donati in quest’ultimo caso a Nemo Sarteanesi dallo stesso Burri, come Nero (1951), regalo di nozze.
Proprio Sarteanesi, protagonista e testimone delle vicende culturali di Città di Castello, è l’elemento chiave nella conoscenza tra i due grandi protagonisti del Novecento attraverso la figura del noto corniciaio Angelini. «Mio nonno si era recato nei dintorni di Senigallia per fare le vacanze estive e arrivò qui perché aveva realizzato degli acquarelli che doveva incorniciare. Nonno Nemo era pittore, oltre che grande amico di Burri e condivideva con lui molte attività culturali come il festival della musica, il cinema, il club fotografico e la stessa Fondazione Burri.
Tra loro c’era un dibattito culturale estremamente aperto ed era stato proprio lui a invitare Giacomelli a Città di Castello.» È vero che la prima foto dedicata da Giacomelli a Burri è del settembre 1966 ma dal carteggio (in parte esposto) è stato possibile anticipare la datazione della loro conoscenza agli anni 1960/63. «Burri non amava nessuno, mandava via Rauschenberg dallo studio, invece aveva un amore per Giacomelli,» – continua il curatore Pierini – «tanto che la Fondazione Burri nel 1983 organizzò l’unica mostra di un artista vivente che non fosse Burri alla Biblioteca Comunale di Città di Castello – Mario Giacomelli, 1955-1983 – con l’acquisizione del portfolio Omaggio ad Alberto Burri». Nel ’66 i due grandi artisti si davano ancora del lei, chiamandosi reciprocamente «Signor Burri» e «Signor Giacomelli», ma un paio d’anni dopo passarono al tu. Dediche come «All’amico e maestro Burri, con simpatia» (1968), «Ho pensato a te, Burri, mentre fotografavo. A ricordo, con tanti auguri» (agosto 1969) come pure «Non dimentico mai la tua arte che mi ha preso forte forte at Burri da Giacomelli, Natale 1970».
Tra le opere di Alberto Burri in dialogo con le visioni zenitali del paesaggio di Giacomelli attraversato da ferite, graffi, solchi che indugiano sulla memoria di un territorio interiore, si possono vedere alcune serie grafiche ad acquaforte e acquatinta come Combustioni (1965) e Cretti (1971), insieme a dei piccoli tesori meno noti scovati nei depositi della Fondazione Burri tra cui Catrame (1951) e Sacco ST 11 (1954). Proprio la conoscenza dell’opera informale dell’artista umbro e la frequentazione con lui portò Giacomelli ad accantonare definitivamente la pittura, sua passione iniziale come è testimoniato dalla tela Paesaggio del ’64 (tecnica mista con collage di stoffe, colori a olio e cera), per dedicarsi esclusivamente alla sperimentazione fotografica.
Dalla sua camera oscura proviene, poi, quel tronco di legno sezionato che il maestro fotografò nella serie Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1966-68), ulteriore mappatura di un ipotetico paesaggio dalla pregnanza simbolica con quei paesaggi-volti che evocano storie ancestrali. La «materia natura», forgiata e riformulata, attraversa serie fotografiche come Metamorfosi della terra (1963-65), Presa di coscienza sulla natura (1968), Storie di terra (1984).
È l’espressione di assonanza – tra strappi, cuciture, trame contorte, combustioni, linee e segni – di questi due uomini d’altri tempi che si stimavano reciprocamente, riservati e taciturni, così radicati alle loro radici. «Al di là di un’epidermica vicinanza formale più volte evidenziata dalla critica, appare dunque evidente l’analoga attitudine di Burri e Giacomelli a vedere e formare solo paesaggio, a costruire l’immagine come sintesi, astratta riconfigurazione sulla superficie dell’opera di un’unità visiva generata dal medesimo sentimento della natura», scrive Marco Pierini. Sapevano ascoltare il suono del vento, accarezzare l’acqua, maneggiare il fuoco, osservare l’alba e il tramonto: ma che si saranno mai detti quando camminavano a lungo, fianco a fianco, nella campagna umbra?
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