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Mario de Maria, Marius Pictor e le ombre, la luce dei suoi sogni

Mario de Maria, Marius Pictor e le ombre, la luce dei suoi sogniMario de Maria, Veduta di Capri con tramonto, 1887

A Bologna, Museo dell’Ottocento Indipendente come Alberto Martini, sodale di d’Annunzio, ebbe una spiccata sensibilità nordica con cui evocò atmosfere e figure trasognate, lunari, macabre

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 21 luglio 2024

Al di là di quegli artisti che sempre vengono alla mente ripercorrendo a ritroso, e in pieno sole, la storia dell’arte italiana tra Otto e Novecento, ne esistono alcuni cui la fortuna critica arrise in maniera piuttosto discontinua, e che occorre andare a snidare dai punti più in ombra di quella stessa storia: una ricerca formale più indipendente, sovente insistente sui temi simbolisti più macabri e misteriosi, o ispirata a quella letteratura nera europea e americana tanto estranea alla sensibilità mediterranea quanto affine a quella nordica, caratterizzarono in maniera maggiore o minore i percorsi solitari di personalità come Alberto Martini, Romolo Romani o Mario de Maria.

È proprio a quest’ultimo, e a un secolo dalla sua morte, che rende omaggio una mostra a cura di Francesca Sinigaglia allestita fino al 9 settembre nel neonato Museo dell’Ottocento di Bologna, la città natale dell’artista. Solitario solo nella sua ricerca, Marius Pictor – così amava firmarsi – era invero socialmente inserito: collaborò con poeti e artisti come Gabriele D’Annunzio e Vittore Grubicy de Dragon, fu apprezzato dalla critica e venne persino coinvolto nell’organizzazione della prima Biennale di Venezia, partecipandovi egli stesso in diverse successive edizioni. Viceversa, il percorso formale e poetico di de Maria finirà per riassumere elementi raccolti durante la sua formazione in viaggio per l’Europa, ma senza aderire a questo o quel movimento, né farsi epigono di qualche nome maggiore.

 

Autoritratto, part., collezione privata

Inizialmente sono la tecnica dei macchiaioli, l’eco dei barbizonistes e l’inquietudine panica affiorante da certa pittura di Böcklin a costituire le premesse della ricerca di de Maria. Paradossalmente, considerandone il piglio estremamente fantasioso, l’artista non venne sedotto dalle invenzioni allucinatorie e fumose di certi simbolisti belgi e francesi, ma proprio attraverso gli strumenti della pittura di realtà appresi inizialmente, si dedicherà a evocare atmosfere trasognate, in debito palese con la poetica simbolista del paesaggio-stato d’animo.

E infatti, fin dall’inizio, l’artista predilige le silenziose atmosfere lunari e notturne, tanto da meritarsi il soprannome di «Mario delle lune», coniato dal Vate in persona, D’Annunzio, con il quale lavorerà all’illustrazione di Isaotta Guttadauro nel 1886, insieme ad altri artisti del gruppo romano In arte libertas: delle due illustrazioni, per l’appunto lunari, concepite per il libro di poesie sono in mostra le versioni a olio, La danza dei pavoni. Eliana, e L’alunna, quest’ultima in una variante con una beffarda luna teschio.
D’altra parte, come notava un altro sodale di de Maria, Angelo Conti, per taluni il Walter Pater italiano, «la poesia e la musica vivono nella notte, sono le sole arti notturne, le sole che non abbiano bisogno della luce per mostrarsi agli uomini, le sole che, nate dal silenzio che precede l’apparire della vita, generino il silenzio in cui parla la vita», parole che inquadrano perfettamente l’opera del pittore bolognese, la cui formazione giovanile non per caso era stata musicale, e che si divertiva a raccontare di aver dipinto, una volta, guidato dall’anima dello stesso Beethoven. E attraverso la luce della luna, sono restituite volumetricamente le superfici architettoniche immaginate dall’artista, definendone ogni minima variazione di profondità o aggetto, effetto portato al parossismo nelle facciate di vecchi palazzi e mura cancrenate che occuperanno le opere di de Maria sempre più spesso a partire dal periodo veneziano – e di architettura, a margine, l’artista si occuperà direttamente progettando nel 1895 il padiglione Pro Vita della Biennale di Venezia, e la propria abitazione alla Giudecca, la Casa dei Tre Oci.

L’attenzione agli effetti di luce è dominante in quasi tutte le opere del pittore. Più rari i dipinti con effetti di sole — tra questi il Meriggio di un fauno (1909) di cui D’Annunzio teneva una versione sopra il suo letto –, molte scene dipinte con luce diurna saranno invece trasmutate in lunari grazie a una tecnica di velature progressive, quasi ad anticipare quell’effetto cinematografico noto come day for night, e ne è dimostrazione pratica il confronto tra il dipinto presente in mostra con i tavoli di un’osteria in un cortile, e la versione definitiva oggi conservata alla Galleria Nazionale di Roma, Luna sulle tavole di un’osteria: si narra che il pittore, una sera, fosse accorso in un’osteria romana a Prati di Castello alla notizia di un feroce assassinio, ma non trovando quasi nulla a testimoniare la tragedia, decise proprio di conservare l’atmosfera di straniante silenzio vissuta sul luogo.

Quella stessa sensibilità per gli effetti luministici condurrà de Maria alla ricerca di un impasto pittorico, studiato sulle ricette dei pittori veneti antichi, che potesse restituire una certa brillantezza minerale e dura delle superfici, quasi a imitare concrezioni murarie, e per il quale condivise l’entusiasmo con l’amico e confidente Grubicy, con cui peraltro realizzò spesso dipinti a quattro mani, pur senza cedere mai alle lusinghe divisioniste.

Infine, fondamentale fu l’amore per le ombre di Rembrandt, artista in grado di «oggettivare la luce dei suoi sogni e dei suoi palpiti», come scrisse de Maria stesso, e la cui sapienza luministica anima ogni angolo delle sofisticate architetture di oscurità costruite dal bolognese, fesse da raggi lunari o bucate da rossicci barlumi. Anche gli effetti rembrandtiani, di fatti, sono da intendersi per de Maria come strumenti utili a veicolare stati d’animo, attraverso la pittura e secondo le leggi segrete dell’intuizione e della suggestione, e proprio in un articolo sul pittore olandese, nel 1911, l’artista scrisse che «l’arte è soltanto una obiettivazione di una emozione e l’opera d’arte non è che il veicolo che conduce di nuovo l’eletto riguardante, alla emozione eterna, che fu lo stimolo della sua creazione e guidò la mano dell’artefice paralizzandone il cervello. Tutto quello che rientra nel quadro scaturisce perciò dall’immaginario dell’artista che è specchio del mistero, più vasto della realtà».

Applicando tali concetti alla pittura di ritratto in una direzione quasi medianica, l’amico Grubicy realizzò intorno al 1910 diversi ritratti di bambini defunti, basandosi su fotografie e cercando di rievocarne precisamente la vitalità perduta, lo spirito: uno di questi, il ritratto della figlia di de Maria, Silvia, scomparsa a sei anni nel 1905, è esposto in mostra: Ombra cara.

Nonostante molte opere di de Maria appaiano come suggestive quinte vuote e senza tempo, non è raro che alcune figure ne abitino i più umbratili recessi, furtivamente, a volte semplici elementi pittoreschi, a volte attori di messe in scena sempre più ermetiche e sinistre – si vedano ad esempio la Storia di un mercante di scheletri (1914) o la Putredine nella casa di Satana (1921), evoluzioni di quella sorta di prototipo che fu Il monaco dalle occhiaie vuote (1887-’88) – , apparentemente tratte dal folklore e dalla leggenda, ma forse inventate dallo stesso artista, come sosteneva Ugo Ojetti, «pel comodo del pubblico troppo curioso e troppo ingenuo, e anche per suo personale divertimento».

Tali cupezze andarono moltiplicandosi durante gli anni dieci, quasi in risposta allo slogan più roboante e chiassoso del Futurismo, «Tuons le clair de lune!», uccidiamo il chiaro di luna!, perché nessuna lampada ad arco, nessuna luce elettrica, avrebbe mai dissolto quel «mistero, più vasto della realtà».

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