Mario De Caro, la posta in gioco, tra primato del reale e dipendenza del tutto dal linguaggio
Tra la natura e noi «Realtà», da Bollati Boringhieri
Tra la natura e noi «Realtà», da Bollati Boringhieri
Dai tempi di Zenone di Elea a Hans-Georg Gadamer, la consistenza e il significato della cosiddetta «realtà» è argomento antico e controverso, che travaglia il pensiero occidentale, e ora dà il titolo a un nuovo saggio di Mario De Caro, Realtà (Bollati Boringhieri, pp. 128 € 13,00).
Fin alle porte del secolo XXI, a passare in rassegna le principali correnti filosofiche della storia, è una vera marcia trionfale di pensatori impegnati, in vario modo, «a negare trionfalmente realtà alla realtà. «L’idea … era che la realtà non sia qualcosa di sempre già dato, qualcosa di internamente strutturato indipendentemente dal pensiero: senza le categorie della mente o del linguaggio, si sosteneva, la realtà è amorfa, destrutturata, inarticolata, insensata».
Una singolare eccezione era rappresentata dai «marsupiali della filosofia», oltre ai filosofi australiani, Popper e Searle, ma anche un pensatore come McDowell, il quale apriva uno «spazio logico delle ragioni», a cui appartengono i concetti e le nozioni normative (giusto, ingiusto ecc.), che pur non potendo essere ricondotte al dominio delle scienze naturali, non erano per questo, ipso facto, «irreali». La malvagità di un Hitler è, in questa prospettiva, altrettanto reale quanto la consistenza fisica di un albero (o del Covid-19).
In uno stile piano e sottilmente ironico, l’autore arriva a toccare, con una bella dote di sintesi, le principali poste in gioco, mostrando come antirealisti e realisti condividano un terreno di lotta comune, ossia l’ontologia, una dottrina dell’essere volta a definire la misura, l’estensione e il valore d’essere delle nozioni che ciascuno ritiene essenziali per spiegare il mondo. I filosofi postmoderni, per esempio, ritengono che «il linguaggio è il fulcro da cui tutto dipende; ma se la realtà dipende dal linguaggio, allora il linguaggio deve essere reale».
Due le famiglie principali: il «realismo ontologico» stabilisce «che determinati tipi di cose sono reali»; il «realismo epistemologico» asserisce che «esistono fatti che esorbitano la possibilità di accertarli». All’interno della prima famiglia – quella di cui tratta il libro – ci sono poi tre membri o versioni dell’ontologia realista: il «realismo ordinario» (è reale solo ciò «di cui possiamo avere esperienza diretta o indiretta»); il «realismo scientifico» (sono reali «soltanto le entità e gli eventi che le scienze possono descrivere e spiegare»), la più forte delle quali è il fisicalismo (primato della fisica); infine, c’è il «realismo rispetto alle entità astratte», ossia quelle realtà particolari che «non hanno una collocazione spazio-temporale» (i numeri, gli universali, i significati, i valori e così via).
Il libro segue l’andamento dei dibattiti attorno al realismo ontologico, a partire dall’originale riconsiderazione di un «negletto filosofo tardorinascimentale», l’anti-copernicano eclettico Jacopo Mazzoni, amico di Galileo, che colse bene la posta in gioco tra platonici e aristotelici (la matematizzazione o meno della fisica), come «l’inizio di un dibattito cruciale che è continuato nei secoli, arrivando sino ai nostri giorni». Passando per «il conflitto dei realismi» (ordinario e scientifico), si approda al «realismo pluralistico», che l’autore fa suo, negando la tesi fisicalista che tutta la natura coincida con l’oggetto di studio della fisica e delle altre scienze, pur non abbandonando affatto il campo naturalistico.
Secondo questo naturalismo (o realismo) liberalizzato esiste una «seconda natura» che coincide con lo «spazio logico delle ragioni e delle norme» non meno naturale della «prima natura» della fisica. Certamente, sarebbe molto interessante applicare questa prospettiva liberalizzata del realismo al campo politico (l’autore non lo fa) e ai progetti, più o meno radicali, di emancipazione umana.
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